La Seconda Lettera di Pietro, con un linguaggio apocalittico, indica il senso finale della storia, il giudizio divino inevitabile, che svela bene e male, che valuta e salva
Giunti all’ultima tappa del nostro lungo itinerario nel creato, così come è descritto nella Bibbia, lasciamo echeggiare una domanda forte che – con argomentazioni e prospettive diverse – anche la scienza si pone. C’è una meta ultima per il flusso del tempo, l’agitarsi della storia, l’evolversi dell’universo? La fede cristiana lo ha ribadito spesso: noi non piombiamo nel gorgo del nulla, ma «nuovi cieli e nuova terra » usciranno dalle mani del Creatore, e Cristo di nuovo verrà incontro all’umanità in una parousía, cioè, in greco, in una nuova «presenza-venuta». Eppure, già nei primi tempi del cristianesimo serpeggiava il sospetto che nessuna palingenesi o radicale trasformazione o risurrezione ci attende. Alcuni maestri ironicamente si domandavano: «Dov’è mai la venuta (parousía) che Cristo ha promesso?». E rispondevano scetticamente: «Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione».
Questa critica, che fa leva sulla tesi di certi pensatori greci che sostenevano l’immutabilità dell’essere, è riferita dalla Seconda Lettera di Pietro (3,4), uno scritto posto sotto il patronato di «Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo» (1,1), ma frutto probabilmente di un autore cristiano che si voleva collocare sotto l’ombrello ideale del principe degli apostoli, anche se posteriore a lui di vari anni. Già san Girolamo sottolineava la radicale «differenza di stile» e di linguaggio di questo scritto rispetto alla Prima Lettera di Pietro.
Contro questi «schernitori beffardi » che negano un senso finale al nostro essere ed esistere si leva la voce di questo predicatore cristiano che, con linguaggio apocalittico, descrive l’approdo ultimo della storia: «Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta» (2Pietro 3,10). Egli ricorre a un’espressione profetica per designarlo: è «il giorno del Signore», cantato dal profeta Amos come l’inevitabile momento del giudizio divino che svela bene e male, che giudica e salva. Questo profeta immaginava che l’irrompere del giorno del Signore sarebbe stato «come quando uno fugge davanti a un leone e s’imbatte in un orso, come quando entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde» (5,19). La Seconda Lettera di Pietro aggiunge un’altra immagine per esaltare l’imprevedibilità di quell’evento terminale supremo. Essa è attinta alla stessa predicazione di Cristo: «Se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Matteo 24,43-44). Infine, la Lettera adotta la scenografia possente della letteratura apocalittica: elementi cosmici che si incendiano, fusioni ad altissima temperatura, dissolvimento dei cieli e della terra, e dalle ceneri del vecchio universo ecco apparire la nuova creazione. Ovviamente questi scenari non devono essere assunti come teorie scientiche o previsioni cosmologiche e storiche. L’obiettivo a cui punta l’autore sacro è quello di respingere una concezione solo «spirituale » e intimistica della fede. Essa ci fa vivere nel tempo e nello spazio e ci esorta a dare un signicato alle realtà terrestri e alle azioni storiche.
È un po’ questo il messaggio nale che rivolgiamo anche noi ai lettori che ci hanno accompagnato in un percorso, durato un anno, all’interno di un mondo di meraviglie. Siamo tuttavia consapevoli che vale per noi l’esperienza fatta dal Siracide, il sapiente biblico che aveva dipinto un mirabile affresco del creato: «Potremmo dire molte cose e non finiremmo, e la conclusione del discorso sarebbe: Egli è il tutto!» (43,27).