Il giogo leggero della libertà da noi stessi
«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero». Matteo 11,25-30
Quando lo Spirito Santo entra nel cuore porta con sé una serie di regali – sette per l’esattezza – e uno di questi è l’Intelletto. Questo dono non è una caratteristica personale, non lo detiene solo chi è intelligente, altrimenti non sarebbe per tutti, come lo Spirito Santo, che è Signore e dà la vita a tutti, e quindi non può essere classista, non è precluso a coloro che sono meno dotati.
Eppure è capacità di capire il “nesso” delle cose, verrebbe dal latino intus-legere o intus-ligare, ossia quell’attività di intendere come le cose sono connesse fra di loro (ligare) e consente di vedere oltre (legere) l’apparenza sconnessa dei fatti e delle espressioni. Comunque la sua caratteristica è uno sguardo interiore (intus) sulle cose. Ancora di più viene da pensare che sia roba per cervelloni
Il nesso più profondo delle cose è la trama dell’opera di Dio, il filo rosso della Provvidenza che si dipana dentro la storia e che, come si dice, scrive diritto sulle righe storte.
E se tutto questo sembra qualcosa che richieda enormi capacità intellettive, va detto che non siamo sulla cattiva strada: non richiede, infatti, abilità inaudite, ma del tutto fuori portata dell’intelligenza umana. Qui è il punto del Vangelo di questa domenica: intendere il nesso provvidenziale delle cose non si fa per capacità propria, ma per dono di Dio. «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli».
Per conoscere il segreto bello di tutto non bisogna essere colti o qualificati, ma piccoli. Questa Sapienza, altro dono dello Spirito Santo, entra per un’intuizione umile di sé, che è ben altra Scienza (ulteriore dono divino) che non l’erudizione, ed è quella che ogni liturgia eucaristica ci invita a praticare come porta di ingresso della celebrazione: «per celebrare degnamente i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati», si accede alla luce perché si viene dalla tenebra.
LA COSA BELLA DA FARE.
Conoscere la propria povertà, ma non nel senso dei propri difetti, di cui magari si è analizzatori indefessi per quell’orgoglio che mal sopporta i limiti e odia le fragilità, ossia per superbia; si tratta invece di riconoscere i peccati, il male fatto in pensieri, parole, opere e anche omissioni, che poi sono le più gravi, visto che il male fatto è di certo brutto, ma mai quanto il bene non fatto di cui ha preso il posto, la cosa bella che si doveva fare “invece” e che era da praticare. Dio rivela i suoi segreti a coloro che conoscono la propria miseria, a quelli che ricordano i loro blackout di amore e hanno consapevolezza della parte nera del proprio cuore.
Con Dio si vince quando si perde, si diventa forti quando si ammettono i peccati, si diventa sapienti quando ci si trova stupidi, si diventa adulti quando ci si ammette piccoli, si entra nella pace quando si riconoscono le proprie ossessioni.
C’è un giogo leggero da prendere, quello che Cristo sa donare ed è pieno di Spirito Santo: è il giogo della libertà da noi stessi.