Fede, sofferenza, gratitudine
Appena vide i lebbrosi, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Luca 17,14-16
Il credente «vive per la sua fede» e la manifesta con le opere; egli custodisce un cuore grato perché conosce le meraviglie compiute dal Signore. La gratitudine verso Dio non discende dall’aver ricevuto tutte le grazie o dall’aver visto esaudite tutte le preghiere, ma dalla certezza che Egli c’è in ogni situazione della nostra vita e dalla consapevolezza di quanto sia grande «la nostra eredità» (cfr. Efesini 1,14): siamo chiamati alla vita che non ha fine! «Se moriamo con Lui, con Lui anche vivremo; se siamo infedeli, Lui rimane fedele perché non può rinnegare se stesso» (II lettura, 2 Timoteo). La nostra fede non dipende da noi o dalle nostre doti, è un dono di Dio: Egli «si ricorda del suo amore e della sua fedeltà» (Salmo 97, Responsorio). E noi ci ricordiamo delle sue grandi opere? Celebriamo la sua grande predilezione per noi? I protagonisti della I lettura (II Libro dei Re) e del Vangelo sono lebbrosi: hanno una malattia terribile, altamente contagiosa, spesso mortale, che costringe all’isolamento dalla comunità. La pandemia ha reso familiare anche a noi questa condizione, che a lungo è sembrata lontanissima dalla nostra esperienza e tipica di un mondo antico e passato per sempre: possiamo dunque comprendere più da vicino lo stato d’animo di questi malati e la sensazione di impotenza che accompagna la loro esistenza. Ciò che li accomuna è la fede, seppure incerta, immatura, vincolata al desiderio di ottenere una grazia e di essere liberati dalla vergogna: la malattia, infatti, era considerata una punizione divina e il segno evidente di un grave peccato commesso. Questi lebbrosi si recano tutti, fiduciosi, presso colui che può guarirli (il profeta Eliseo nella I lettura, Gesù stesso nel Vangelo), e tutti obbediscono a quanto viene ordinato loro: Naaman “il siro” «si immerge nel Giordano sette volte», per quanto possa apparirgli assurda la richiesta e sia insignificante il Giordano al confronto con i fiumi della sua terra; i dieci lebbrosi che pregano Gesù di avere pietà di loro si incamminano subito per «presentarsi ai sacerdoti», che devono certificarne l’avvenuta guarigione, e vengono guariti «mentre vanno»: quando partono sono dunque ancora malati; si fidano della parola di Gesù anche se non vedono la grazia richiesta.
A SCUOLA DAI LEBBROSI. Essi ci insegnano ad affidarci nel dolore, a stare in esso con fede, a lasciar fare a Dio e a compiere quello che Lui ci chiede anche se non vediamo la via di uscita dalla nostra sofferenza. In Naaman e nell’unico samaritano tornato indietro (due persone considerate lontane dalla vera fede!) c’è però qualcosa di più: l’esigenza di ringraziare il Signore per il dono ricevuto, tanto forte da precedere il proprio interesse contingente. Naaman, dopo la guarigione, dichiara di riconoscere come Dio solo il Dio di Israele: abbandona dunque il paganesimo per servire l’unico Signore, e questo potrebbe costargli la posizione sociale e la sicurezza, dato che è il comandante dell’esercito di un re pagano; il lebbroso samaritano torna indietro per ringraziare Gesù, posticipando il momento, tanto desiderato, dell’incontro con i sacerdoti per essere dichiarato puro. Questa fede fervente e grata, che mette la gloria di Dio prima di noi stessi e di ogni altro bene, è la fede che salva.