Dare a Dio quello che è di Dio
[I farisei presentarono a Gesù un denaro]. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Matteo 22,19-21
Gesù si trova nel tempio di Gerusalemme, dopo essere entrato trionfalmente nella città di Davide ed essere stato acclamato come Re e Salvatore (cfr. Matteo 21,1- 10); mentre insegna, tutti i notabili di Israele (sommi sacerdoti, anziani del popolo, farisei, successivamente anche i sadducei) si intrattengono con Lui e affrontano una quantità di questioni: alcune di esse ci hanno accompagnati nelle scorse domeniche, offrendoci spunti di riflessione importanti sul nostro modo di relazionarci con Dio e con i fratelli. Oggi il Vangelo esprime chiaramente la ragione dell’interesse di queste persone verso Gesù: non vogliono imparare da Lui, ma «coglierlo in fallo nei suoi discorsi».
Il racconto insiste sulla malizia degli interlocutori, che blandiscono il Maestro dicendo che Egli è «veritiero, insegna la via di Dio con verità, non guarda in faccia a nessuno», tutte cose che essi non pensano realmente di Lui, perché sono «ipocriti», cioè falsi, portatori di una maschera, e intendono solo «metterlo alla prova». Essi non vogliono veramente onorare il Signore! Gesù lo «sa», «conosce la loro cattiveria» e non si presta al loro gioco: chiede di chi siano l’immagine e l’iscrizione, ottiene in risposta il nome di Cesare e invita a dare all’imperatore quello che è suo, perché porta la sua immagine, e a dare a Dio quello che è di Dio. E cosa, nel mondo, porta l’immagine di Dio, l’impronta inequivocabile della sua azione e della sua maestà, se non l’adam maschio e femmina, che Egli «ha fatto secondo la sua somiglianza» (Gen 1,26)?
Dio solo compie meraviglie: «Il Vangelo non si diffonde per mezzo della nostra parola, ma con la potenza dello Spirito Santo»; è Lui che sostiene, nonostante i nostri limiti, «l’operosità della nostra fede, la fatica della nostra carità e la fermezza della nostra speranza» (II lettura, 1Tessalonicesi 1). Le virtù teologali albergano in noi per l’inabitazione della Trinità, che ci ha conformati a sé nel Battesimo; ogni vita umana somiglia al nostro Dio e gli appartiene, sacra e santa perché fatta a sua immagine. È dovere di ciascuno, in ogni stato di vita, custodirla e proteggerla, perché è preziosa agli occhi del Creatore, e offrire al Signore tutto sé stesso: non si tratta di rifiutare le cose della terra come intrinsecamente peccaminose, ma di intervenire tra esse, nel mondo, per orientarle a Dio e per eliminare le strutture di male che impediscono che Egli sia riconosciuto come Signore di tutto. Troppe volte invece, dimenticando di appartenere a Lui e di essere fatti a lode della sua gloria, cediamo anche noi, suoi figli, alla tentazione di sottometterci a chi Dio non è, al denaro, al potere, alla brama di successo; così Cesare diventa più importante del Signore e le richieste dei potenti di questa terra, essi stessi servi del Creatore e da Lui chiamati al servizio del suo popolo (cfr. I lettura, Isaia 45), appaiono ai nostri occhi più urgenti di quelle del nostro Dio. Solo a Lui, che ci ha creati, è dovuto il nostro culto (cfr. Salmo 95, Responsorio)!