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Il corteo dei padri conciliari in piazza San Pietro, diretti all'interno della basilica il giorno dell'apertura ufficiale del Concilio Vaticano II
Sono oramai pochi i testimoni diretti del Concilio Vaticano II, quelli che possono dire «io c’ero». Uno di questi è monsignor Severino Dianich, 91 anni, tra le voci più autorevoli della riflessione teologica in Italia dell’ultimo cinquantennio. Ai tempi del grande concilio ecumenico, di cui l’8 dicembre ricorrono i 60 anni dalla conclusione, era solo un giovane prete nemmeno trentenne ma poté respirare a pieni polmoni il clima di quei giorni. Credere lo ha incontrato per condividere con lui quei ricordi.
Giovane teologo
Durante la seconda sessione del Concilio, che si svolse dal 29 settembre al 4 dicembre 1963, don Severino era in Vaticano come segretario dell’arcivescovo di Pisa, monsignor Ugo Camozzo. «Ero un pivellino», scherza Dianich, «ma ai segretari veniva permesso di entrare in basilica durante le assemblee generali. L’effetto era maestoso: nella navata maggiore erano allestite sui due lati le tribune con i posti a sedere per i Padri conciliari. I vescovi indossavano il mozzettone, un mantello molto elegante di colore paonazzo, aperto sul davanti, che copriva la persona fino alle ginocchia. Le assemblee erano lunghe e capitava di vedere qualche vescovo che si alzava per sgranchirsi le gambe o andare a bere qualcosa. E, ricordo, molti si mettevano in coda davanti ai confessionali nelle navate laterali». Proprio durante la seconda sessione del Concilio, il 22 novembre 1963, fu assassinato il presidente Kennedy. «Il giorno dopo si tagliava a fette un’atmosfera di terrore. Erano gli anni della Guerra fredda e la Chiesa cattolica riponeva in lui molte speranze. A seguito della sua morte poteva succedere di tutto. Incrociai il cardinale Spellman, l’arcivescovo di New York, che fra l’altro era amico di famiglia dei Kennedy. L’angoscia che veniva dal suo volto mi è rimasta negli occhi». Ma, «a dire il vero», prosegue Dianich, «oltre alle ore trascorse in San Pietro, era interessante ciò che avveniva lì intorno. C’erano riunioni informali dei diversi gruppi di vescovi e teologi con dibattiti vivaci e complessi. Ogni giorno era una sorpresa. Il domenicano Yves Congar, uno dei teologi più stimati, non lesinava critiche durissime agli interventi che ascoltava in aula e non gli piacevano. E poi c’era, per la prima volta, un dibattito nell’opinione pubblica ecclesiale, che con interesse seguiva dai giornali i lavori del Concilio».
Una novità per la Chiesa
Invece il giorno dell’apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 1962, don Severino l’aveva seguito in tv: la scenografica processione con i vescovi dalla piazza alla basilica San Pietro fu la prima trasmissione in mondovisione. C’erano pastori di tutte le nazioni, con gli abiti liturgici dei diversi riti cattolici. «Il 13 ottobre arrivò la prima sorpresa del Concilio», ricorda. «Quel giorno si dovevano scegliere i membri delle commissioni di lavoro, confermando i nomi proposti dalla Curia romana, che aveva già predisposto anche gli schemi di testi da votare senza troppo dibattito. E invece si alzò l’arcivescovo di Lille, Achille Liénart, e disse: “No, signori, i membri delle commissioni ce li vogliamo scegliere da noi e per farlo abbiamo bisogno di conoscerci, di incontrarci, di discutere. Dateci del tempo”. La proposta fu accolta con un applauso che denotava larghissimo consenso». Era lo spirito nuovo del Concilio che iniziava a manifestarsi. Uno stile di governo della Chiesa più partecipato, quello che oggi viene chiamato «sinodalità». Al concilio Vaticano II si confrontavano posizioni diverse: c’era dibattito, anche molto acceso. «Non è mai mancata la possibilità di dire quello che ciascuno pensava», conferma Dianich. «È anche vero che papa Paolo VI», subentrato nel giugno del 1963 dopo la morte di Giovanni XXIII, «era preoccupato di evitare rotture e non volle che si discutessero alcuni temi, come quello del celibato dei preti, ma per il resto, una volta aperta la discussione, la libertà di giudizio era assoluta».


Nuova dottrina?
Una libertà che non a tutti andava a genio, abituati a una Chiesa che sentenziava affermazioni indiscutibili. A questo proposito, monsignor Dianich racconta: «Fra le barzellette che circolavano, c’era quella sul cardinale Alfredo Ottaviani, segretario del Sant’Uffizio, uomo di straordinaria intelligenza e preparazione ma di stampo assolutamente tradizionale nella sua formazione teologica e canonistica. Si diceva che pregasse tutti i giorni di morire prima della fine del Concilio per poter morire cattolico. A parte la battuta, resta vero il timore di alcuni che la Chiesa perdesse qualcosa del suo patrimonio di fede. C’era dietro un problema teorico dibattuto anche oggi: l’evoluzione del dogma. Sbaglia chi dice che il Concilio non ha mutato nulla della dottrina, perché almeno su un tema, quello della libertà religiosa, la dichiarazione conciliare Dignitatis humanae non ha nulla a che fare con il magistero dell’Ottocento. E il Vaticano II smentisce decisamente papa Gregorio XVI, secondo il quale la libertà di coscienza era un orrore. Per il Concilio, invece, la libertà di coscienza è un principio fondamentale dell’etica cristiana». Allora don Severino Dianich era agli inizi della sua missione, fresco di studi aggiornati e innovativi. Che speranze nutrivano i giovani verso il Concilio? «Nessuno di noi aveva l’ambizione di tracciare una specie di programma. Ma certo c’era l’aspirazione al recupero dello spirito evangelico e quindi un’operazione critica e di demistificazione di molte sovrastrutture», ci spiega. «Inoltre noi giovani teologi avevamo letto con preoccupazione l’enciclica Humani generis di Pio XII che metteva paletti dappertutto allo sviluppo della teologia. Noi invece aspiravamo a un pensare cristiano libero».
No ai profeti di sventura
Perché il Vaticano II è considerato l’evento ecclesiale più importante dell’ultimo secolo? Secondo Dianich, «il Concilio, in fondo, ha fatto come tutti gli altri concili della storia (sia ecumenici che locali): decidere sulla base dei principi fondamentali della fede la risposta della Chiesa ai bisogni del momento e del luogo in cui ci si trova. Il passaggio dal latino alla lingua parlata nella liturgia è la prima e più semplice riforma di una Chiesa che non voleva più essere appannaggio del clero ma vita e azione di tutto il corpo dei credenti. Ma, più di tutto, il Concilio ha imposto il superamento di vecchi antagonismi: eravamo ai tempi della Guerra fredda, la Chiesa era fortemente impegnata nella lotta contro il comunismo. Il Concilio ha posto la Chiesa su un piano diverso, più ampio, più articolato... per cui tanti problemi precedenti hanno perduto smalto. E il clima si è sciolto… La Chiesa voleva superare l’incomunicabilità con la società civile che si era creata dopo la Rivoluzione francese». Giovanni XXIII lo aveva detto: c’è chi nel tempo presente non vede che «rovine e guai». A noi, aggiungeva papa Roncalli, «sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura».
Famiglia di profughi
Quando parla di comunismo, don Severino non lo fa per sentito dire. Nato a Fiume nel 1936, quando quei territori erano una provincia dell’Italia fascista, dopo la Seconda guerra mondiale ha sperimentato cosa vuol dire essere profughi, lasciando con la famiglia la sua città annessa alla Jugoslavia, e rifugiandosi in Italia per sfuggire al comunismo del maresciallo Tito. «Fin da bambino desideravo diventare prete», racconta, «e così fui accolto, insieme ad altri ragazzi fiumani, nel seminario di Pisa dove era diventato arcivescovo l’ex vescovo di Fiume». E così la Toscana è diventata la sua seconda patria.
Ordinato prete nel 1958, ha studiato alla Pontificia università Gregoriana di Roma, è stato a lungo parroco nel Pisano e, soprattutto, è diventato docente alla Facoltà teologica di Firenze e uno degli esponenti più lucidi e autorevoli della riflessione sul post-Concilio, anche grazie all’Associazione teologica italiana, che ha contribuito a fondare. E così, oltre che testimone diretto del Concilio, don Severino ne è stato, per tutta la sua lunga vita, testimonial: convinto difensore di una ricezione non restrittiva delle novità introdotte dall’assise.







