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C’è un tempo in cui occorre dire “no”. È quello che ha pensato il vescovo austriaco di Eisenstadt, monsignor Ägidius Zsifkovics, quando la direzione della polizia ha deciso di installare su terreni della sua Diocesi un tratto della barriera che deve dividere l’Austria dall’Ungheria. Dall'altra parte della frontiera, nel villaggio magiaro di Körmend, le autorità di Budapest hanno allestito un centro di accoglienza; Vienna, in piena campagna elettorale per le presidenziali, teme che molti profughi proseguano la loro marcia verso Ovest.
Per questo il Ministero dell’interno ha deciso di costruire una barriera di nove chilometri a Moschendorf, una recinzione più lunga di quella di Spielfeld al confine con la Slovenia. Per poter iniziare a piantare i pali e la rete, però, occorre l’assenso dei proprietari dei terreni. Tra loro c’è la Diocesi di Eisenstadt: monsignor Zsifkovics ha vietato alle ruspe di entrare in due proprietà della Chiesa.
La decisione ha aperto una forte discussione in città: c’è chi gli ha scritto ringraziando «in nome dell’umanità», mentre da altri, che si dichiarano cattolici ma simpatizzano per gruppi xenofobi, sono arrivate critiche violente e rabbia.


Il mite vescovo ha ribadito come la crisi dei rifugiati rappresenti «una cartina al tornasole del cristianesimo»: «L’anno scorso, quando circa 200mila persone hanno passato il confine, abbiamo creato da un giorno all’altro, in edifici ecclesiastici, mille alloggiamenti di fortuna per famiglie sfinite, donne, bambini e persone anziane e indebolite. E ora dovremmo installare steccati sui terreni della Chiesa? È il mio corpo stesso che si ribella». «Ho sempre ricordato che la Sacra Famiglia è stata una famiglia di rifugiati e chi pensa altrimenti non rappresenta il Vangelo», ripete con convinzione.
Il suo “nein” è una vera e propria obiezione di coscienza: «Sono consapevole – continua – della difficile situazione della Stato, ma non posso accettare per motivi di coscienza. Con ogni fibra del mio corpo affermo che è impossibile per me accettare che nel Ventunesimo secolo si possano costruire dei recinti, destinati a diventare un feticcio». Zsifkovics, che è anche il coordinatore in tema di profughi delle Conferenze episcopali accreditate all’Ue, ricorda di essere nato nel 1963 a Güssing, vicino alla frontiera con l’Ungheria, di essere cresciuto nell’Europa divisa dalla cortina di ferro e di aver sperimentato «tutte le umiliazioni di una zona di confine», sempre con il desiderio di un’altra vita.


Quella contro il muro di Moschendorf, però, non è una lotta personale del vescovo, ma vede la Chiesa austriaca impegnata a difendere il valore dell’accoglienza contrapposto a quello che il cardinale di Vienna Schönborn ha sintetizzato con l’espressione «Fortezza Europa». Anzi, è una battaglia che va oltre le frontiere nazionali: dall’altra parte del Brennero, il vescovo di Bolzano-Bressanone, Ivo Muser, ha appena scritto una lettera ai fedeli della Diocesi: «La mia prima preoccupazione non risiede nel fatto che l’economia e il turismo potrebbero avere risvolti negativi, ma va soprattutto a quelle donne, a quegli uomini e a quei bambini in fuga che hanno bisogno del nostro aiuto. Il loro grido di aiuto – la loro fuga non è nient’altro che questo! – richiede la nostra attenzione, il nostro cuore generoso. A che cosa serve celebrare l’Anno della Misericordia, se poi siamo duri di cuore nei confronti del prossimo?!».
Per la Chiesa, prendere posizione nel dibattito sull’accoglienza che sta dividendo l’Europa non significa ignorare le preoccupazioni della gente. Tutt’altro: vuol dire provare a orientare i fedeli. Lo ha spiegato proprio il vescovo Zsifkovics: «Capisco le paure delle persone che percepisco attorno a me. Però sarei un cattivo vescovo, se non sapessi dare a queste paure una risposta cristiana. E questa risposta non è lo steccato. Semmai, in caso di necessità, un buco nello steccato!». Per ora non dovrebbe servire: grazie al suo “nein”, i nove chilometri di barriere lungo il confine con l’Ungheria non si faranno.



