C’era una favola di Gianni Rodari che immaginava cosa facessero le scuole d’estate, nel tempo lungo delle vacanze. Meritato riposo da schiamazzi, scarabocchi sui muri, banchi graffiati ma anche, ben presto, parecchia nostalgia di quei visini ridenti, di quelle corse nei corridoi, di quelle combriccole festose.

Una scuola chiusa per poco si dà una sistemata, fa un po’ d’ordine. Una scuola chiusa pertanto è inutile, suscita tristezza, è una torta senza festa, una festa senza amici.

E le chiese? Cosa fanno le chiese chiuse, d’estate? Perché le chiese sempre più spesso chiudono. Orario d’ufficio quando va bene, a volte apertura straordinaria solo la mattina, e anche se gli uffici fermano le porte solo intorno a Ferragosto, da giugno a settembre le chiese vanno in vacanza.

Il popolo che le abita si sposta al mare, in montagna, può darsi. Saranno liete le rotonde sulle spiagge, le cappelline tra i pini. Ma i preti, i diaconi, i consigli pastorali, gli animatori, possibile che tutti siano in viaggio o in ritiro?

Le chiese non dovrebbero assomigliare a sportelli dell’anagrafe o delle poste, i parroci a funzionari o dirigenti d’impresa.

Un sabato di metà giugno, Firenze, Santa Maria Novella: Messa prefestiva, solenne, partecipata, e capita che dopo l’Eucaristia ci si attardi un minuto con gli occhi all’insù, incantati dal crocifisso di Giotto, dagli affreschi troppo lontani e quindi invisibili dell’abside.

«Nessuna visita, bisogna uscire, chiudiamo». Non era il parroco naturalmente, ma il solerte impiegato. Di un museo, con percorsi guidati da transenne e cordoni, inaccessibili senza biglietto.

Ecco, le chiese non dovrebbero essere né aziende né musei, perché le opere che le ornano sono state fatte da uomini, ma a gloria di Dio.

Altrimenti sono insensati quei capitelli scolpiti lassù, quei dipinti in miniatura con storie di santi e profeti, incuneati tra le volte, che vediamo a stento. Per lasciare un segno, per dire «eccomi, il mio lavoro te lo offro».

Non importa che si tratti di maestranze o artisti pagati da committenti ambiziosi. Da come hanno scolpito, dipinto, cesellato si capisce che erano a servizio della Chiesa, non solo di quella chiesa.

Le chiese erano casa, asilo, e tuttora lo sono, per tanti che non hanno casa né asilo o cercano una parola di consolazione, speranza, il perdono o un inginocchiatoio per pregare.

Perché devono essere aperti i centri commerciali e non le belle chiese o le povere chiese più anonime, ma abitate dall’Eucaristia?

So bene che bisogna avere cura di arredi preziosi, che i soldi e il personale di custodia scarseggiano. Ma il Signore è più importante di ogni opera d’arte, la sua presenza è un dono, non lasciamolo solo.

Vale più la chiesa aperta che una sala parrocchiale, un alloggio per gli ospiti, un campetto da calcio.

Abbiamo usato tante volte come slogan l’indicazione accorata di papa Francesco «Chiesa in uscita». Ma se impediamo l’entrata, l’adorazione del tabernacolo, usciamo per vagare, senza più una meta.

(foto in alto: iStock)


In collaborazione con Credere
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