«La fede non ci risparmia la possibilità del peccato, ma ci offre sempre una via per uscirne: quella della misericordia. Gesù non si scandalizza davanti alla nostra fragilità. Sa bene che nessuna amicizia è immune dal rischio di tradimento. Ma continua a fidarsi. Continua a sedersi a tavola con i suoi. Non rinuncia a spezzare il pane anche per chi lo tradirà. Questa è la forza silenziosa di Dio: non abbandona mai il tavolo dell’amore, neppure quando sa che sarà lasciato solo».

È gremita l’Aula Paolo VI per l’udienza generale di papa Leone XIV che, inizialmente, avrebbe dovuto incontrare i fedeli in piazza San Pietro ma, a causa del gran caldo e delle alte temperature di questi giorni, è stata spostata all’interno dell’Aula Nervi dove, in prima fila, siedono molto ammalati.

Prima della catechesi, Leone saluta i fedeli in diverse lingue spiegando che oggi l'udienza si terrà in più luoghi. I fedeli che non hanno trovato posto qui, infatti, la seguono attraverso i maxischermi nella Basilica di San Pietro dove il Papa, al termine, si reca per salutarli. «Cerchiamo di proteggerci da sole e dal caldo estremo», dice a braccio, «grazie per essere venuti, benvenuti a tutti».

Nel saluto ai pellegrini polacchi ricorda San Massimiliano Maria Kolbe, che offrì la sua vita, nel campo di concentramento di Auschwitz, al posto di quella di un padre di famiglia. «Vi incoraggio a prendere esempio dal suo eroico atteggiamento di sacrificio per l'altro», dice il Pontefice, «per sua intercessione, supplicate Dio di donare la pace a tutti i popoli che vivono la tragedia della guerra».

Nel saluto ai fedeli di lingua araba, il Papa ha rivolto un pensiero «in particolare a quelli provenienti dall'Iraq e dalla Terra Santa: il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male».

Nella catechesi, il Pontefice prosegue il ciclo di catechesi sul tema “Gesù Cristo nostra speranza” dedicato a quest’anno giubilare e si sofferma sull’episodio del tradimento di Gesù da parte dei suoi discepoli durante l’Ultima Cena. Una scena, la definisce il Papa, «intima, drammatica, ma anche profondamente vera». Gesù, come racconta il Vangelo di Marco, esordisce dicendo: “In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà”. «Parole forti», commenta il Papa che ne spiega il significato: «Gesù non le pronuncia per condannare, ma per mostrare quanto l’amore, quando è vero, non può fare a meno della verità. La stanza al piano superiore, dove poco prima tutto era stato preparato con cura, si riempie all’improvviso di un dolore silenzioso, fatto di domande, di sospetti, di vulnerabilità. È un dolore che conosciamo bene anche noi, quando nelle relazioni più care si insinua l’ombra del tradimento. Eppure, il modo in cui Gesù parla di ciò che sta per accadere è sorprendente. Non alza la voce, non punta il dito, non pronuncia il nome di Giuda. Parla in modo tale che ciascuno possa interrogarsi».


Ed è proprio quello che succede perché, prosegue il racconto evangelico, i discepoli “Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: ‘Sono forse io?» «Questa domanda – “Sono forse io?” – è forse tra le più sincere che possiamo rivolgere a noi stessi», sottolinea il Papa, «non è la domanda dell’innocente, ma del discepolo che si scopre fragile. Non è il grido del colpevole, ma il sussurro di chi, pur volendo amare, sa di poter ferire. È in questa consapevolezza che inizia il cammino della salvezza. Gesù non denuncia per umiliare. Dice la verità perché vuole salvare. E per essere salvati», sottolinea Leone XIV, «bisogna sentire: sentire che si è coinvolti, sentire che si è amati nonostante tutto, sentire che il male è reale ma non ha l’ultima parola. Solo chi ha conosciuto la verità di un amore profondo può accettare anche la ferita di un tradimento».

Il Papa poi si sofferma sulla reazione dei discepoli che, ricorda, «non è rabbia, ma tristezza. Non si indignano, si rattristano. È un dolore che nasce dalla possibilità reale di essere coinvolti. E proprio questa tristezza, se accolta con sincerità, diventa un luogo di conversione. Il Vangelo», sottolinea Leone, «non ci insegna a negare il male, ma a riconoscerlo come occasione dolorosa per rinascere».

Il Papa poi riflette su un’altra frase, inquietante, pronunciata da Gesù che in riferimento al traditore dice: “Guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”. «Sono parole dure, certamente», ammette il Papa, «ma vanno intese bene: non si tratta di una maledizione, è piuttosto un grido di dolore. In greco quel “guai” suona come un lamento, un “ahimè”, un’esclamazione di compassione sincera e profonda. Noi siamo abituati a giudicare. Dio, invece, accetta di soffrire. Quando vede il male, non si vendica, ma si addolora. E quel “meglio se non fosse mai nato”», spiega il Papa, «non è una condanna inflitta a priori, ma una verità che ciascuno di noi può riconoscere: se rinneghiamo l’amore che ci ha generati, se tradendo diventiamo infedeli a noi stessi, allora davvero smarriamo il senso del nostro essere venuti al mondo e ci autoescludiamo dalla salvezza. Eppure, proprio lì, nel punto più oscuro, la luce non si spegne. Anzi, comincia a brillare». Un nuovo inizio, una rinascita che è possibile, ricorda il Papa, solo «se riconosciamo il nostro limite, se ci lasciamo toccare dal dolore di Cristo. La fede», aggiunge, «non ci risparmia la possibilità del peccato, ma ci offre sempre una via per uscirne: quella della misericordia».

Il Pontefice conclude la sua catechesi chiedendo a tutti di chiedersi «con sincerità: “Sono forse io?”. Non per sentirci accusati, ma per aprire uno spazio alla verità nel nostro cuore», spiega, «la salvezza comincia da qui: dalla consapevolezza che potremmo essere noi a spezzare la fiducia in Dio, ma che possiamo anche essere noi a raccoglierla, custodirla, rinnovarla. In fondo, questa è la speranza: sapere che, anche se noi possiamo fallire, Dio non viene mai meno. Anche se possiamo tradire, Lui non smette di amarci. E se ci lasciamo raggiungere da questo amore – umile, ferito, ma sempre fedele – allora possiamo davvero rinascere. E iniziare a vivere non più da traditori, ma da figli sempre amati».

Tra i circa 14mila fedeli presenti all’udienza, c'erano anche 35 fedeli della Comunità di San Giacomo per i cattolici di lingua ebraica in Israele. «Torniamo a casa per essere segni visibili di speranza», ha detto a Vatican News il vicario patriarcale Piotr Zelazko, spiegando che il gruppo è «a Roma in pellegrinaggio giubilare in rappresentanza delle sette comunità che fanno parte del Vicariato, e di questa bellissima chiesa di Gerusalemme; e la nostra speranza quotidiana è di creare ponti fra il mondo ebraico e quello cattolico, pregando per la liberazione degli ostaggi, così come per la fine delle sofferenze a Gaza e per tutte le vittime del conflitto in Terra Santa». Per lui la prospettiva è quella del perdono: «Cerchiamo di essere sempre con chiunque vive nel dolore perché le lacrime delle madri non hanno bandiera e noi come cristiani dobbiamo offrire una luce per tutti. In questi giorni lontano dalla devastazione degli ultimi due anni e nel cuore della cristianità i nostri fedeli sentono la libertà di esprimere la propria fede e viverla insieme con tanti altri cattolici venuti da tutto il mondo», gli fa eco don Benedetto di Bitonto, responsabile della comunità dei cattolici di lingua ebraica a Gerusalemme.

Nel pomeriggio il Pontefice si trasferisce a Castel Gandolfo per un periodo di riposo, più breve, dopo quello di luglio. In programma diverse celebrazioni: la Messa e l'Angelus venerdì 15 per la solennità dell’Assunta e, domenica 17, la Messa, l'Angelus e il pranzo con i poveri e i volontari della Caritas diocesana di Albano nel Borgo Laudato Si’. Il Papa farà ritorno in Vaticano il 19 agosto e il giorno dopo terrà la consueta udienza generale del mercoledì.