Una esortazione scritta “a quattro mani” con il suo predecessore. Per ribadire, ancora una volta, che non si può essere cristiani e ignorare i poveri, perché è nella loro carne che si incontra Cristo. Papa Leone pubblica la sua prima Esortazione apostolica. «In continuità con l’Enciclica Dilexit nos», scrive subito Prevost nella introduzione, «papa Francesco stava preparando, negli ultimi mesi della sua vita, un’Esortazione apostolica sulla cura della Chiesa per i poveri e con i poveri, intitolata Dilexi te, immaginando che Cristo si rivolga ad ognuno di loro dicendo: "Hai poca forza, poco potere, ma io ti ho amato”». E sottolinea di sentire questa come una «eredità», un progetto che è «felice di farlo» suo «aggiungendo alcune riflessioni – e di proporlo ancora all’inizio del mio pontificato, condividendo il desiderio dell’amato Predecessore che tutti i cristiani possano percepire il forte nesso che esiste tra l’amore di Cristo e la sua chiamata a farci vicini ai poveri. Anch’io infatti ritengo necessario insistere su questo cammino di santificazione, perché nel “richiamo a riconoscerlo nei poveri e nei sofferenti si rivela il cuore stesso di Cristo, i suoi sentimenti e le sue scelte più profonde, alle quali ogni santo cerca di conformarsi”».

Una sorta di sunto del cammino che la Chiesa, dalle prime comunità e fondandosi sul Vangelo, ha fatto per e accanto ai poveri.

Perché «i poveri sono al centro stesso della Chiesa. «La condizione dei poveri», scrive al paragrafo 9,  «rappresenta un grido che, nella storia dell’umanità, interpella costantemente la nostra vita, le nostre società, i sistemi politici ed economici e, non da ultimo, anche la Chiesa. Sul volto ferito dei poveri troviamo impressa la sofferenza degli innocenti e, perciò, la stessa sofferenza del Cristo».

In cinque capitoli e 121 paragrafi, Leone ribadisce che esistono varie forme di povertà, «quella di chi non ha mezzi di sostentamento materiale, la povertà di chi è emarginato socialmente e non ha strumenti per dare voce alla propria dignità e alle proprie capacità, la povertà morale e spirituale, la povertà culturale, quella di chi si trova in una condizione di debolezza o fragilità personale o sociale, la povertà di chi non ha diritti, non ha spazio, non ha libertà». E che è «da salutare con favore il fatto che le Nazioni Unite abbiano posto la sconfitta della p»overtà come uno degli obiettivi del Millennio».

Denuncia «l’illusione di una felicità che deriva da una vita agiata» e che «spinge molte persone verso una visione dell’esistenza imperniata sull’accumulo della ricchezza e sul successo sociale a tutti i costi, da conseguire anche a scapito degli altri e profittando di ideali sociali e sistemi politico-economici ingiusti, che favoriscono i più forti». Crescono così alcune «élite di ricchi, che vivono nella bolla di condizioni molto confortevoli e lussuose, quasi in un altro mondo rispetto alla gente comune. Ciò significa che ancora persiste – a volte ben mascherata – una cultura che scarta gli altri senza neanche accorgersene e tollera con indifferenza che milioni di persone muoiano di fame o sopravvivano in condizioni indegne dell’essere umano».

E se pure, come fu per il caso del piccolo Aylan trovato riverso, esanime, su una spiaggia, l’emotività si sveglia per qualche tempo presto si dimentica il dramma dei tanti che vivono sotto la soglia di povertà, di chi cerca fortuna sfidando deserto e mare, di chi muore senza trovare accoglienza.

Papa Leone, sulle orme non solo del predecessore ma di una lunga sfilza di santi e sante, che non manca di elencare, da San Francesco a Camillo De Lellis a Madre Teresa di Calcutta, allo stesso apostolo Paolo, ripete che «sulla povertà non dobbiamo abbassare la guardia» e che è sull’amore al povero che si misura la nostra fede.

Denuncia l’aumento della povertà anche nei Paesi ricchi, il mancato accesso all’acqua e ai beni di prima necessità, la morte di migliaia di persone per cause legate alla malnutrizione. E torna esplicitamente a parlare di «opzione preferenziale per i poveri» citando l’Assembla del Celam di Puebla. «Questa “preferenza” non indica mai un esclusivismo o una discriminazione verso altri gruppi, che in Dio sarebbero impossibili; essa intende sottolineare l’agire di Dio che si muove a compassione verso la povertà e la debolezza dell’umanità intera e che, volendo inaugurare un Regno di giustizia, di fraternità e di solidarietà, ha particolarmente a cuore coloro che sono discriminati e oppressi, chiedendo anche a noi, alla sua Chiesa, una decisa e radicale scelta di campo a favore dei più deboli», scrive il Papa. E parla non solo di Africa e Asia, ma anche di Europa dove «sono sempre di più le famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese».

Non solo, il Papa sottolinea la crescente criminalizzazione di chi fa del bene, l’indifferenza verso i poveri e la dilagante opinione che la colpa della povertà sia dei poveri stessi, quasi una scelta «C’è ancora qualcuno che osa affermarlo, mostrando cecità e crudeltà. Ovviamente, tra i poveri c’è pure chi non vuole lavorare, magari perché i suoi antenati, che hanno lavorato tutta la vita, sono morti poveri. Ma ce ne sono tanti – uomini e donne – che comunque lavorano dalla mattina alla sera, forse raccogliendo cartoni o facendo altre attività del genere, pur sapendo che questo sforzo servirà solo a sopravvivere e mai a migliorare veramente la loro vita. Non possiamo dire che la maggior parte dei poveri lo sono perché non hanno acquistato dei “meriti”, secondo quella falsa visione della meritocrazia dove sembra che abbiano meriti solo quelli che hanno avuto successo nella vita».

E anche i cristiani «in tante occasioni, si lasciano contagiare da atteggiamenti segnati da ideologie mondane o da orientamenti politici ed economici che portano a ingiuste generalizzazioni e a conclusioni fuorvianti. Il fatto che l’esercizio della carità risulti disprezzato o ridicolizzato, come se si trattasse della fissazione di alcuni e non del nucleo incandescente della missione ecclesiale, mi fa pensare che bisogna sempre nuovamente leggere il Vangelo, per non rischiare di sostituirlo con la mentalità mondana. Non è possibile dimenticare i poveri, se non vogliamo uscire dalla corrente viva della Chiesa che sgorga dal Vangelo e feconda ogni momento storico».

Si comprende bene, allora, perché si può anche teologicamente parlare di un’opzione preferenziale da parte di Dio per i poveri, un’espressione nata nel contesto del continente latino- americano e in particolare nell’Assemblea di Puebla, ma che è stata ben integrata nel successivo magistero della Chiesa. Questa “preferenza” non indica mai un esclusivismo o una discriminazione verso altri gruppi, che in Dio sarebbero impossibili; essa intende sottolineare l’agire di Dio che si muove a compassione verso la povertà e la debolezza dell’umanità intera e che, volendo inaugurare un Regno di giustizia, di fraternità e di solidarietà, ha particolarmente a cuore coloro che sono discriminati e oppressi, chiedendo anche a noi, alla sua Chiesa, una decisa e radicale scelta di campo a favore dei più deboli.

Parla dei malati e degli anziani, dei bambini e dei migranti, di tutte quelle situazioni in cui le persone si trovano ai margini . E, con una fitta serie di citazioni bibliche e dei padri della Chiesa, il Papa insiste sulla testimonianza di Cristo, «maestro itinerante, la cui povertà e precarietà è segno del legame con il Padre ed è richiesta anche a chi vuole seguirlo sulla via del discepolato, proprio perché la rinuncia ai beni, alle ricchezze e alle sicurezze di questo mondo diventi segno visibile dell’affidarsi a Dio e alla sua provvidenza».

Loda quanti vivono nei contesti più poveri non solo esercitando la carità, ma condividendola con i più fragili. E si chiede come sia possibile che, nonostante la «chiarezza nelle Sacre Scritture a proposito dei poveri, molti continuano a pensare di poter escludere i poveri dalle loro attenzioni».

Persino il nemico, in caso di indigenza, va aiutato, ricorda il Pontefice citando il Levitico: «Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a sé stesso: mettiti con lui ad aiutarlo». Da questo «traspare il valore intrinseco del rispetto per la persona: chiunque, perfino il nemico, si trovi in difficoltà, merita sempre il nostro soccorso».

E quindi non è possibile «amare Dio senza estendere il proprio amore ai poveri. L’amore per il prossimo rappresenta la prova tangibile dell’autenticità dell’amore per Dio». Due «amori distinti, ma non separabili. Anche nei casi in cui il rapporto con Dio non è esplicito, il Signore stesso ci insegna che ogni atto di amore verso il prossimo è in qualche modo un riflesso della carità divina: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”».

Ritorna sull’espressione di papa Francesco che tre giorni dopo l’elezione «espresse ai rappresentanti dei media il desiderio che la cura e l’attenzione per i poveri fossero più chiaramente presenti nella Chiesa: “Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”». E sottolinea che «questo desiderio riflette la consapevolezza che la Chiesa “riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo”».

E parla anche di giustizia. Citando Sant’Agostino, infatti, che «ebbe come maestro spirituale Sant’Ambrogio», ricorda «l’esigenza etica della condivisione dei beni: “Non dai al povero del tuo, ma gli restituisci del suo: perché quello che era stato dato a tutti perché l’usassero insieme, tu lo hai usurpato per te solo”».  Per «il Vescovo di Milano, l’elemosina è giustizia ristabilita, non un gesto di paternalismo. Nella sua predicazione, la misericordia assume un carattere profetico: denuncia le strutture di accumulo e riafferma la comunione come vocazione ecclesiale».

E dunque il «prendersi cura dei poveri» è «una prova concreta della sincerità della fede. Chi dice di amare Dio e non ha compassione per i bisognosi mente».

«Oggi», scrive ancora, «la fedeltà agli insegnamenti di Agostino esige non solo lo studio delle sue opere, ma la prontezza a vivere radicalmente il suo invito alla conversione, che include necessariamente il servizio della carità».

Dopo una serie di applicazioni pratiche, compreso il servizio ai detenuti, la cura dei malati , quella dei poveri nella vita monastica, quando il lavoro silenzioso dei monaci «era il lievito di una nuova civiltà, dove i poveri non erano un problema da risolvere, ma fratelli e sorelle da accogliere. La regola della condivisione, il lavoro comune e l’assistenza ai vulnerabili strutturavano un’economia solidale, in contrasto con la logica dell’accumulo. La testimonianza dei monaci mostrava che la povertà volontaria, lungi dall’essere miseria, è un cammino di libertà e di comunione. Essi non si limitavano ad aiutare i poveri: si facevano loro vicini, fratelli nello stesso Signore. Nelle celle e nei chiostri si è formata una mistica della presenza di Dio nei piccoli». Insiste sull’importanza degli ordini mendicanti e sulla necessità non solo di dare i beni primari ai poveri, ma anche di fornire educazione e strumenti per lo sviluppo. «Per la Chiesa, insegnare ai poveri era un atto di giustizia e di fede. Ispirata dall’esempio del Maestro che insegnava alla gente le verità divine e umane, essa ha assunto la missione di formare i bambini e i ragazzi, soprattutto i più poveri, nella verità e nell’amore».

Per i migranti, ma non solo per loro, riprende i quattro verbi cari a papa Francesco: «accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ma questi verbi non valgono solo per i migranti e i rifugiati. Essi esprimono la missione della Chiesa verso tutti gli abitanti delle periferie esistenziali, che devono essere accolti, protetti, promossi e integrati». E ribadisce che «la Chiesa, come una madre, cammina con coloro che camminano. Dove il mondo vede minacce, lei vede figli; dove si costruiscono muri, lei costruisce ponti. Sa che il suo annuncio del Vangelo è credibile solo quando si traduce in gesti di vicinanza e accoglienza. E sa che in ogni migrante respinto è Cristo stesso che bussa alle porte della comunità».

Loda poi non solo le azioni individualli, ma anche i movimenti popolari «costituiti da laici e guidati da leader popolari, tante volte sospettati e addirittura perseguitati». Ma sono loro che «invitano a superare “quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli”.  Se i politici e i professionisti non li ascoltano, “la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino”».

 

E, infine, denunciando «una economia che uccide» esorta a «impegnarci sempre di più a risolvere le cause strutturali della povertà. È un’urgenza che «non può attendere, non solo per un’esigenza pragmatica di ottenere risultati e di ordinare la società, ma per guarirla da una malattia che la rende fragile e indegna e che potrà solo portarla a nuove crisi».