I mali di Roma denunciati dallo storico convegno del febbraio 1974 non sono stati del tutto debellati, ed oggi prendono vita e forma “nelle polifragilità che gravano” sulla Capitale, si possono vedere nella crisi abitativa della città, che si manifesta con occupazioni di stabili, ricorso a baraccopoli nelle periferie; nell'aumento dei disoccupati, ma anche nella piaga del gioco d'azzardo, nella mancanza di lavoro, nelle difficoltà per l'accoglienza ai migranti, nelle scelte politiche non all'altezza...farne un elenco completo è difficile”.

Grido d'allarme del cardinale Angelo De Donatis, vicario del Papa per la diocesi di Roma, che lunedì presiede nella Basilica di San Giovanni in Laterano la tavola rotonda organizzata per ricordare il 50esimo anniversario del Convegno sui Mali di Roma che si svolse dal 13 al 16 febbraio del 1974. Un grido che il porporato anticipa a Famiglia Cristiana, richiamando “non solo i romani al risveglio delle coscienze”. Eminenza, dopo 50 anni, cosa può dire e rappresentare oggi agli uomini e alle donne del terzo millennio quello storico convegno che denunziò le crisi della città di Roma e le responsabilità dei cattolici davanti a quei mali?

“Il convegno promosso dal Cardinale Ugo Poletti si intitolava: La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma. Successivamente venne definito il convegno sui “Mali di Roma”. All’epoca, la città era attraversata da profonde inquietudini sociali, particolarmente evidenti nelle periferie dove vivevano persone disagiate con le loro famiglie. Vi erano emarginazione, sradicamento dalle proprie origini e tradizioni a causa delle migrazioni dal sud Italia, analfabetismo, povertà, devianza morale e criminalità; inoltre, persisteva una severa questione dell’abitare. Tutto ciò interrogava le autorità locali, e anche la comunità cristiana che, proprio grazie al convegno, prese consapevolezza delle difficoltà in cui tanti poveri si dibattevano. Il risultato fu un guizzo di consapevolezza della Chiesa romana che s’impegnò ad assumersi le proprie responsabilità. Oggi vale la stessa cosa: non si è Chiesa autentica, cioè una comunità di fratelli e sorelle, se non si ascolta la loro voce, se non si è partecipi del loro vissuto”.

In particolare, per la Città Eterna, capitale d'Italia e sede del Vaticano, quelle assise che richiamarono i cattolici davanti alle loro responsabilità per le attese e le speranze dei più deboli e dei più bisognosi possono essere un esempio da seguire?

“Quel convegno chiamò a raccolta le forze vive della città religiosa e della città civile. Si svolse in modo aperto a tutti. Si poté intervenire liberamente, anche con critiche severe rivolte alle istituzioni civili e religiose. Emerse una dimensione importante di Chiesa dal basso e di Chiesa di popolo, con l’attenzione rivolta alle responsabilità sociali e alle responsabilità pastorali. Si creò un clima di coesione operosa. Ecco, penso che il cammino sinodale stia andando in una direzione simile al convegno: dare spazio a tutti, cercare insieme le soluzioni, senza illudersi di fare da soli. Roma è una città complessa e allo stesso tempo bellissima; sono meravigliato e grato nel veder crescere nella città il desiderio di collaborare insieme”.

Le carenze denunciate mezzo secolo fa sono state tutte debellate?

“Alla denuncia delle carenze, seguì una fase di azione, che lentamente si è affievolito. Purtroppo le fragilità nella città si sono moltiplicate e diversificate rispetto al 1974. Le analisi sociali e le statistiche delle povertà abbondano, ma la denuncia non basta più. Il mio invito è questo: continuare con coraggio l’ascolto reciproco, le storie di vita, e lasciare che lentamente emerga il “noi”, con delle soluzioni dove ciascuno si sente chiamato interpellato sia come causa del male che come soluzione”.

Cosa non è stato fatto e di chi è stata la colpa maggiore se parte di quei “mali” sono ancora in piedi a scapito dei più poveri?

“È riduttivo parlare di colpe o di inadempienze da parte di istituzioni e di persone; consideriamo piuttosto l’ampliamento progressivo dei problemi sociali a livello economico, formativo e culturale. Il cardinal Poletti affermò che era ormai necessaria un’analisi approfondita delle cause del malessere sociale esistente, affinché si definissero le proposte dei rimedi. Riconosco un errore commesso in questi anni, che continua ancora oggi: le scelte politiche, economiche, sociali, abitative, lavorative, se fatte con il criterio del profitto e tornaconto personale, vanno a infrangersi sui più deboli. Non si può pagare sempre meno le persone e sorprendersi che si sono impoverite. Retribuire i lavori più umili, dall’industria alle cure domiciliari, con il minimo, avrà come conseguenza diretta la moltiplicazione delle fasce deboli”.

È ipotizzabile organizzare oggi un analogo convegno con lo scopo di richiamare alle loro responsabilità cristiani, credenti di altre religioni, non credenti, di fronte ai problemi cittadini di oggi?

“Il Convegno del 1974 fu un’iniziativa diocesana con al centro le istanze della carità e della giustizia. Fermo restando che l’esperienza del ’74 rimane un unicum, sono convinto che ci siano tutte le premesse per un percorso di comunità, di quartieri, di popolo, che ricuperi il valore fondante della giustizia sociale e della carità, senza sovrapporre e confondere le due cose. Abbiamo un bisogno impellente di condividere percorsi e progetti di futuro, a partire dal punto di vista degli ultimi. Papa Francesco ci invita a condividere la vita “con” i poveri e non fare semplicemente qualcosa “per” i poveri. Per dirla con le parole di don Luigi Di Liegro, per affrontare i problemi di oggi, ci vuole più giustizia e meno carità – intesa come elemosina, e dobbiamo mettere sulla cattedra i poveri, i fragili, che la fatica del vivere la vivono, non la leggono”.

Un eventuale nuovo convegno sui Mali di Roma del terzo millennio avrebbe bisogno di nuove figure organizzative come monsignor Luigi Di Liegro, l'anima delle assise del febbraio '74. Lei, Eminenza, nella Chiesa di oggi vede all'opera qualche nuovo Di Liegro?

“Di Liegro era un profeta, tanto è vero che ne percepiamo il profumo del suo operato ancora oggi. Ci sono anche oggi i profeti, pure nella Chiesa di Roma; forse meno visibili, più da gesti piccoli e nascosti, ma ci sono. Resto convinto che la Chiesa del prossimo futuro abbia sempre più i tratti della Chiesa come Popolo di Dio; ne è un esempio la sinodalità che stiamo lentamente rafforzando. E questo non annulla la profezia, ma la moltiplica in modo miracoloso quasi. Anche nella società civile sta tramontando l’epoca del leaderismo, e prova ne è l’esistenza del partito a doppia cifra degli astenuti. Come Chiesa di Roma, sotto la guida di Papa Francesco, siamo convinti che la riscoperta dell’identità battesimale dei cristiani, sia il punto cardine per prendere consapevolezza della loro vocazione: edificare il Regno di Dio con la corresponsabilità verso i più piccoli, e con la carità politica per il bene comune”.

Crede che l'attuale classe politica ed i rappresentanti delle istituzioni sarebbero capaci di mettersi in ascolto degli appelli che potrebbero arrivare dal mondo cattolico e del volontariato in difesa delle fasce sociali più deboli ed indifese?

“Chiunque oggi si senta chiamato a governare o amministrare, sa bene che senza avere i piedi per terra e senza conoscere le pieghe e le piaghe della società, è destinato a fallire. Mi sembra di cogliere che le istituzioni, le amministrazioni, riconoscano alla Chiesa il merito di “avere le mani in pasta” e di poter dare una lettura della realtà e dei problemi, avendo un solo interesse: il bene comune. L’ascolto degli altri, avente come unico interesse il servire, per me è un esercizio umile e mi ferisce dentro; allo stesso tempo però, è un modo per avere dentro una sana e santa frustrazione che mi spinge a non arrendermi e fare di tutto insieme all’altro per migliorare le condizioni della persona, della famiglia, e delle relazioni, anche nel proprio condominio. Ascoltare i poveri aiuta a fare meglio il bene”.

Quali sono i mali più dolorosi che attualmente gravano su Roma – e non solo – sui più poveri e sulle categorie sociali disagiate?

“Roma ha indubbiamente delle polifragilità sociali, e farne un elenco è difficile. Penso all’emergenza abitativa, con circa 50.000 persone in condizioni abitative disagiate tra palazzi occupati, baraccopoli, case occupate, senza tetto; troppe sono le persone che non possono permettersi un affitto, e questo ci interpella in modo particolare come Chiesa. Penso alla vera a propria emergenza dell’azzardo, con quasi 5 miliardi di euro spesi nel solo 2022, e le persone rovinate. Il lavoro precario, in nero, con le persone sfruttate nei vari settori. I migranti, con quasi 500.000 di residenti, ma a cui vanno aggiunti il 10% circa degli invisibili; Roma è una città multiculturale e multireligiosa, ma la sfida è che diventi interculturale. Lo voglio quindi sottolineare: i migranti non sono semplicemente un problema, non portano solo bisogni, sono attuali e futuri protagonisti della nostra città, con in primo piano i giovani delle seconde generazioni, o detto in modo più appropriato, i nuovi italiani. Poi abbiamo anche la povertà sanitaria, sempre più emergente e la povertà educativa e scolastica che si inserisce nel grande capitolo della questione giovanile”.

Papa Francesco fin dall'inizio del suo Pontificato ha voluto che la sua Chiesa sia più aperta e più vicina al prossimo, specialmente i più bisognosi, come “un ospedale da campo dopo una battaglia”.

La Chiesa di Roma cosa ha fatto, cosa sta facendo e cosa farà per essere più aperta, più vicina a poveri e bisognosi, per assomigliare sempre di più ad un ospedale da campo aperto a tutti auspicato dal Pontefice? “Rischiando di essere banale, direi che la Chiesa di Roma usa entrambe le orecchie ed il cuore per ascoltare, e si sta lasciando ferire sempre più. E questo mi sembra il primo servizio di amore. Inoltre, la ramificazione e la vicinanza delle comunità parrocchiali, attraverso le Caritas e le varie realtà di carità della città, è significativa, anche se spesso il tutto viene vissuto in modo carsico, discreto. La pandemia è stata da questo punto di vista, un’occasione preziosa: ci siamo resi conto che “non possiamo e non vogliamo dare per elemosina ciò che è dovuto per giustizia”. E quindi le comunità parrocchiali si stanno attrezzando a sostenere le persone non semplicemente con i pacchi alimentari, bensì con il sostegno ad avere i propri diritti di cittadini, all’inserimento lavorativo, abitativo. Mi sta particolarmente a cuore il fatto che stiamo per valorizzare l’eredità spirituale e pastorale di un altro sacerdote romano, che si è speso tanto per i poveri ed i baraccati: don Roberto Sardelli. Quindi con l’animazione della Caritas romana, nel prossimo periodo dovremo dare un nuovo impulso al sostegno all’abitare, all’affitto solidale e sociale. Segnalo come dal 2015 ad oggi, in seguito all’appello del Papa, molte sono ormai le parrocchie e gli istituti religiosi che hanno dato casa e famiglia a molte famiglie nei loro spazi abitativi”.