Contestata e incompresa. Cinquant’anni fa, il 25 luglio 1968, Paolo VI firmava la sua settima e ultima enciclica, l’Humanae vitae. In occasione di quest’anniversario, Luciano Moia, giornalista di Avvenire e responsabile del mensile Noi famiglia & vita, nel libro Il metodo per amare. Un'inchiesta. L'«Humanae Vitae» cinquant'anni dopo (San Paolo) compie un’ampia ricognizione su un documento che ha posto al centro il tema (spinoso) della contraccezione analizzandone le questioni ancora aperte.

Qual è l’insegnamento di fondo dell’Humanae vitae che resta valido e che andrebbe rilanciato?

«Spesso si definisce quest’enciclica come la “profezia di Paolo VI”. In gran parte è vero. Papa Montini ha avuto il coraggio di rimettere al centro del tema sessualità-coniugalità il rapporto inscindibile tra amore e fecondità. Non era facile, viste le circostanze storico-culturali segnate da profonde contrapposizioni in cui l’enciclica è apparsa. E questa “profezia” appare oggi in tutto il suo valore di fronte alla crisi delle relazioni familiari, all’inverno demografico, alla manipolazione dei processi generativi, all’ideologia del gender pur tra tanti equivoci. Quando però Paolo VI tradusse questa grande intuizione antropologica sul piano normativo, cominciarono i problemi».

Questo perché sui “metodi naturali” l’insegnamento dell’Humanae vitae, e della Chiesa in generale, è stato ed è tuttora ampiamente disatteso, anche dai cattolici. Bisogna rinunciare a riproporre la questione?

«Nient’affatto. La Chiesa non si stanca di indicare l’obiettivo dell’amore indissolubile, unico, fedele e fecondo, metodi naturali compresi, come punto d’arrivo. Ma in Amoris laetitia papa Francesco ci ha spiegato che è necessario abbracciare debolezze e fragilità nella convinzione che ogni situazione familiare custodisca un “bene possibile” che va fatto crescere e sviluppare. Continuare a ribadire l’indicazione dei metodi naturali come strada esclusiva, serve a poco. Oggi il 98-99% delle coppie praticanti non è nelle condizioni di osservare quella norma. Bisogna comprenderne i motivi e agire di conseguenza».

Ma la conseguenza non rischia di diventare un atto di resa alla mentalità dominante in cui la sessualità, anche all’interno delle coppie stabili, è banalizzata e spesso ridotta a strumento?

«Il realismo cristiano ci impone di guardare in faccia la realtà che, su questi temi, è stata efficacemente riassunta dal doppio questionario dei due Sinodi sulla famiglia (2014-2015). Le risposte hanno evidenziato, a livello mondiale, una rimozione collettiva del problema contraccezione. Non si tratta solo di ignorare il dettato dell’Humanae vitae. E questo è palese. Ma il fatto è che su questi aspetti non ci si pone più alcun problema etico. Cosa fare? Puntiamo il dito contro la stragrande maggioranza delle coppie cristiane e le accusiamo di non aver capito? Troppo facile, ma anche ingiusto. Forse, proprio in occasione di questo anniversario, serve una serena e costruttiva autocritica».

Potrebbe essere questo il modo migliore, dal punto di vista pastorale, per ricordare il 50° anniversario della pubblicazione dell’Humanae vitae?

«Direi proprio di sì. Lo stesso Paolo VI aveva spiegato che la sua enciclica non andava considerata né infallibile né irreformabile. Consapevole, con la sua grande finezza umana e il suo intuito, che sarebbe stato necessario uno sviluppo per dare risposte sempre pregnanti. E allora, celebrando la grande intuizione di Montini, non è sbagliato chiederci come proseguire in quell’impegno pastorale. Magari formulando meglio una distinzione tra “atto” contraccettivo e mentalità contraccettiva, con un percorso che sia anche rispettoso della coscienza e della retta intenzione di due persone adulte che si amano e che, con verità e libertà, vogliono avanzare nel loro cammino di fede».