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Nel suo ultimo film, La vita va così del regista Riccardo Milani (nelle sale dal 23 ottobre), Diego Abatantuono è Giacomo, il presidente di un potente gruppo immobiliare con sede a Milano che vuole realizzare un resort di lusso vicino al mare, su una fascia costiera incontaminata nel sud della Sardegna. Sembra tutto facile, almeno all’inizio, ma nessuno ha fatto i conti con Efisio Mulas, un anziano pastore (interpretato da Ignazio Loi), che vive lì da sempre, tra il mare e i suoi animali che porta al pascolo, che dice no a tutte le offerte, anche milionarie, che gli arrivano per vendere il suo terreno e far andare avanti i lavori.
«Guardate che io non vendo», è la sua posizione, «questa è la terra di mio padre e del padre di mio padre e me la tengo e voi qui intorno non avete diritto di costruire». Intanto, le pressioni su Efisio aumentano, la comunità si spacca tra chi sogna nuove opportunità di lavoro e chi teme (pochi, per la verità) di perdere per sempre la propria identità, e all’ennesimo rifiuto da parte del pastore la trattativa si trasforma in una battaglia legale nella quale entra in scena Giovanna (interpretata da Geppi Cucciari), una giudice nata e cresciuta in quei luoghi e chiamata a dirimere il conflitto.
Un film (nel cast anche Virginia Raffaele, nei panni della figlia del pastore, e Aldo Baglio, il capocantiere Mariano), ispirato a una storia vera, iniziata nel 2000 e che ha avuto un’eco internazionale, il cui protagonista, il pastore Ovidio Marras, morto il 7 gennaio 2024 all’età di 93 anni, è diventato famoso per aver vinto quella che è stata definita la “battaglia contro il cemento” nella zona di Capo Malfatano, uno dei promontori più belli e affascinanti nell’estremità sud-occidentale dell’Isola. Su circa 700 ettari di verde e macchia mediterranea, infatti, sarebbe dovuto nascere un complesso alberghiero, ville con piscina, residence, giardini privati, campo da golf e servizi annessi. Un mega resort che avrebbe dovuto essere la perla della Costa Dorada, l’equivalente della Costa Smeralda spostato nel sud della Sardegna. Dietro la Sitas c’era il gotha del mattone italiano: il gruppo Benetton, Toti-Lamaro, il gruppo Toffano e la Sansedoni SpA, braccio immobiliare della Fondazione e della Banca Mps, che aveva all’epoca Francesco Gaetano Caltagirone come vicepresidente. Ovidio aveva il suo “furriadroxiu”, una casa ovile dove viveva con il gregge di pecore e le mucche, in quella zona, con un uso civico di passaggio per portare gli animali al pascolo lungo il sentiero che portava alla spiaggia.
Abatantuono, il suo personaggio è un uomo d’affari molto determinato che però, nel film, ha un’evoluzione sorprendente.
«All’inizio sembra un uomo duro e cinico: dà ordini perentori ai collaboratori, bada solo agli affari, non si preoccupa di apparire “buono”. Ma a poco a poco comincia a farsi delle domande. Capisce che non si tratta solo di cifre e contrattazioni: dietro c’è un’altra posta in gioco, più grande. Si accorge che non tutto può essere ridotto al denaro. E cerca di capire cosa c’è dietro il rifiuto ostinato di vendere del pastore che non si lascia abbagliare dalle grosse cifre che gli offrono. Alla fine, non arriva a una piena conversione, ma prende coscienza del fatto che servono anche riferimenti etici. Già questo è molto: tanti uomini d’affari e speculatori, nella realtà, non se ne accorgono mai e vanno avanti senza scrupoli».
Il film gioca anche su un forte contrasto visivo. Da un lato, il suo ufficio che domina lo skyline di Milano. Dall’altro, il paesaggio sardo di Efisio Mulas.
«Sì, la città tecnologica e avveniristica e la provincia remota che sembra appartenere a un altro mondo. Milano offre ricchezza e opportunità ma i paesaggi come quello sardo del film rappresentano un bene comune da difendere, non qualcosa da vendere al miglior offerente o da trasformare in resort di lusso a beneficio di quei pochi che se lo possono permettere».
Una delle scene più intense è quella delle ruspe che abbattono la macchia mediterranea sotto gli occhi del pastore.
«È molto toccante e fa capire che esistono ancora persone animati da valori, capaci di resistere, con coraggio, pur sapendo di andare controcorrente e di avere molte persone contro. Solo l’ostinazione e la fedeltà a certi valori hanno permesso al pastore di resistere, nonostante fosse osteggiato da molti compaesani. Persino il vescovo, a un certo punto, prova a convincerlo. I due protagonisti del film – il mio e il pastore – sono agli antipodi. È come se mettessero due pesi, due ragioni opposte sulla stessa bilancia. Alla fine, tocca a chi guarda scegliere da che parte stare».
Il film tocca anche un tema molto attuale: come conciliare il turismo con la tutela del paesaggio.
«Sì. È la storia di tanti luoghi belli che potevano essere conservati e che invece sono stati rovinati. Penso alla Romagna degli anni del secondo Dopoguerra o al Gargano della mia infanzia, quando scorazzavo libero sulla spiaggia. Poi sono arrivati i campeggi, il cemento selvaggio, il turismo di massa. È un cane che si morde la coda: la quantità non è sostenibile. Venezia, ad esempio, non regge quei numeri di visitatori. Per salvare la qualità e preservare il paesaggio a volte servono prezzi più alti, ma così il diritto di accesso diventa elitario, per pochi. È un conflitto eterno: economia contro giustizia, quantità contro qualità».
Che cosa resta al pubblico di questo film?
«La consapevolezza che certe dinamiche che raccontiamo non cambiano mai: interessi economici, speculazioni, contrapposizioni, resistenze. E una domanda: fino a che punto possiamo ridurre tutto al denaro? Quale spazio resta per l’etica e la coscienza?».
Lo stadio di San Siro, con le aree limitrofe, è stato venduto dal Comune di Milano alle società di Milan e Inter e sarà abbattuto. Che ne pensa?
«Purtroppo dei dettagli di questa vendita ne sappiamo molto poco. Non so come faranno a costruire il nuovo stadio mentre San Siro è ancora in funzione. Sarebbe meglio fare prima quello nuovo e poi buttare giù il vecchio. Io penso comunque che sia un errore enorme. San Siro è uno stadio funzionale, con una visibilità perfetta e facilissimo da raggiungere. Si poteva ristrutturarlo e costruirne un altro, mantenendo entrambi. Demolirlo significa cancellare un pezzo importante di memoria storica della città. È lo stesso errore che si è fatto con le Scuderie, un posto meraviglioso, dove ho trascorso la mia infanzia. Purtroppo, si distrugge senza pensare al valore affettivo e culturale dei luoghi. Ho la sensazione che dietro ci siano soprattutto interessi economici, più che sportivi».
Le polemiche sulla cementificazione selvaggia di Milano, su cui sta indagando anche la magistratura, richiamano alcune dinamiche del film.
«Nessuno mi toglie della testa che ci sono in ballo grossi interessi. Ci vorrebbe una legge che obblighi a piantare un albero per ogni metro cubo costruito. Sarebbe un modo concreto per compensare l’impatto edilizio. Dove c’è il verde, anche un posto brutto cambia, si trasforma, e la città diventa più vivibile. Gli alberi sono l’unica vera difesa quotidiana contro l’inquinamento».
A maggio ha compiuto settant’anni. Che bilancio fa?
«Non amo i compleanni. A venti li adoravo, a trenta e quaranta ero gasato, a cinquanta neutrale, a sessanta indifferente. A settanta li ho trovati proprio insopportabili. Sono al terzo giro, ormai. Ho cominciato a lavorare a quindici anni, a venti ero già truccatore, a ventidue giravo film e ne ho fatti 12 in due anni. Ho fatto tanto, e non ho grossi rimpianti».
Nemmeno quello, comune a molti attori, di aver trascurato la famiglia?
«No. Se mi proponevano di girare un film d’estate, quando i figli erano a casa, dicevo di no. Non posso dire di non averli frequentati».
Lei è nato artisticamente al Derby di Milano. Che ricordo ha di quegli anni?
«Splendido. Un periodo indimenticabile. Il Derby era un giardino incantato dove trovavi di tutto e per me è stata una palestra pazzesca. Ho avuto la fortuna di respirare quell’aria e di imparare da giganti come Enzo Jannacci, Dario Fo, Giorgio Gaber, Beppe Viola, Renato Pozzetto, Giorgio Faletti. Era un mondo variegato, fatto di musica, comicità, teatro, improvvisazione. Non potevi che crescere: si imparava guardando».
E lì nasce anche il personaggio del terrunciello.
«Negli anni Sessanta a Milano arrivavano tantissimi immigrati pugliesi, come i miei nonni, originari del Gargano, che cercavano di adattarsi mescolando dialetto e italiano. Io li ascoltavo, li studiavo, e da lì è nato quel personaggio: uno che arrivava nella grande città e cercava di diventare più “milanese” dei milanesi. Ricordo una signora che vedevo a Milano e che un giorno rividi a Vieste in estate con i miei genitori: era tornata in Puglia e girava con il cappotto ad agosto per darsi un tono altolocato, da nordica». Qual è il segreto del grande successo di questo personaggio? «L’essere vero, realistico. Se un personaggio non lo è, dura poco».
È vero che sua madre, che faceva la guardarobiera al Derby, sconsigliò a Renzo Arbore di vederla?
«Sì, la sua generazione era abituata a un altro genere di cabaret, quello di Walter Valdi, Gianni Magni, Nanni Svampa, i Gufi. Io invece ho iniziato con un umorismo diverso, surreale, particolare. Lei, come tante madri, si vergognava un po’. Quando Arbore le chiese di me, disse: “Ah, quello lì? È mio figlio sì, ma è un deficiente, lasci stare!”. Io passavo di lì e ho sentito tutto».
Che rapporto ha con la fede?
«Molto personale. Non frequento molto, ma parlo con Dio, o con la mia coscienza, che forse sono la stessa cosa. I miei genitori mi hanno insegnato a essere onesto: se un’azione danneggia solo me stesso, posso anche farla; se danneggia gli altri, no. Non è paura, è convinzione. È il principio che mi guida ancora oggi».



