Auguri dal più profondo del cuore. Questa è la frase principale di una mia canzone degli anni ‘60. Canzone che ho sempre molto amato e che porta la firma del  grande Luis Enriquez Bacalov e di Andrea Bernabini.  Canzone che io utilizzo, al posto della più nota “ Tanti auguri a te “  solo ed esclusivamente per le grandi occasioni, ovvero, quando  desidero fare auguri più personali a chi voglio particolarmente bene, agli amici  veri, a chi fa parte della mia vita o a chi stimo e ammiro in modo particolare. Oggi  è una di queste grandi occasioni, e quindi la utilizzerò per una persona che io considero straordinaria, la quale raduna  in sé tutte queste meravigliose qualità e che in questo  giorno raggiunge  un altro importante traguardo della sua vita, l’ennesimo giro di boa : compie 70 anni ! 

Sì, settanta, nonostante continui  a mantenere  un fisico asciutto e uno sguardo da eterno  ragazzo. Sto parlando di una persona che è per me quasi un fratello e di una amicizia vera, la nostra, che dura da oltre cinquant’anni  a dispetto di chi ci voleva eterni  rivali
, e  che non solo continua ad essere tale, ma col trascorrere del tempo, si è addirittura fortificata. Sto parlando naturalmente del mio amato “fratellone"  Gianni Morandi.  

La nostra amicizia, e mi piace ricordarlo, è siglata da un incontro che avvenne negli studi della Rca  di Roma nel settembre del 1962. I  big boss, ovvero i  grandi capi della RCA, ci fecero incontrare, noi, unici due ragazzini in un mondo di adulti messi  sotto contratto  dalla storica  etichetta discografica, per fare una serie di fotografie   di presentazione alla stampa  e per farci conoscere quegli  artisti  che,  con i loro successi, avevano contribuito a rendere quell’etichetta  tanto  famosa. Primi fra tutti, Sergio Endrigo e Nico Fidenco.

L’intesa  con te, ricordo, fu immediata. Entrambi coetanei – solo 8 mesi ci separano l’uno dall’altra -  avevamo  molti punti in comune che ci rendevano  simili. Ed è forse proprio grazie a queste affinità che io mi riconobbi in lui e lui in me, e quindi, diventare amici si rivelò la cosa più normale che potesse accadere. Guardandoci, riconoscevamo  in noi i segni delle sgomitate, date e ricevute, pur di riuscire a trovare quel posto al sole a cui  entrambi  anelavamo.  Riconoscevamo i segni delle difficoltà vissute, della sofferenza, delle umiliazioni provate.  Dei bocconi amari ingoiati  ma mai digeriti. Entrambi, pur se nati  nell’immediato dopoguerra,  avevamo  vissuto lo strascico finale di quella tragedia  che si era  appena  conclusa, vivendo  gli anni difficili della ricostruzione e della grande povertà. Gli anni in cui si lasciava la scuola dell’obbligo appena superata la soglia dei dodici anni, della quinta elementare, perché, in barba all’istruzione si doveva pur mangiare, e quindi,  tutti i componenti della famiglia, grandi o piccini che fossero, dovevano  in qualche modo  dare una mano  con il loro personale apporto.

Così, a 12 anni appena compiuti, tutti e due già lavoravamo. Ci aggiungemmo  a quella lunga sfilza di minorenni che in quell’epoca lavoravano in nero e assolutamente mal  pagati. Ma questo era allora un fatto  risaputo da tutti e nessuno ci faceva più caso. Nessuno gridava allo scandalo vedendo un ragazzino o una ragazzina costretti  ad alzarsi all’alba per prendere il tram o il filobus delle cinque e dirigersi sul posto di lavoro per restarvi  nove ore di fila proprio come gli adulti. Nessuno.  Così, entrambi obbligati dai genitori  a lasciare gli studi , ci portavamo addosso i segni di una fame insaziabile  dovuta a quella lacuna spaventosa  che si condensava  in due verbi  modali : conoscere e sapere. 
Cosa questa  che  in seguito ci ha  spinti a farci una propria cultura, autodidatti solerti e indefessi  nella ricerca spasmodica di qualcosa che ci consentisse di colmare quel vuoto interiore che ci portavamo dentro e che sentivamo pesarci  addosso come una  corazza di ferro  allontanandoci dagli altri,  da coloro che,  più fortunati di noi, avevano potuto continuare le scuole e gli studi. Ma da lassù Qualcuno doveva   amarci  sin d’allora, e quel  Qualcuno non soltanto ci ha permesso di emergere  nonostante le nostre défaillance culturali, ma ci ha addirittura regalato un sogno, il nostro sogno,  un sogno che si è rivelato  però  più grande  di quanto avremmo mai potuto chiedere o  immaginare, dandoci   successo,  denaro e fama  . Un sogno che continua a farci sognare ancor oggi.

Certo – e  anche qui le similitudini tra me e Gianni si sprecano – la vita ci ha fatto anche “ dono “  di momenti  molto difficili sia nel lavoro che nel  privato. Momenti  seri,  critici, duri da accettare e ardui da dimenticare, ma noi, forgiati da una vita  che non ci ha risparmiato nulla, che ci ha  dato tantissimo ma che ci ha tolto altrettanto, siamo riusciti a superarli con forza e dignità, e oggi siamo felici di una ritrovata  serenità  che viviamo accanto alle persone che  amiamo e che ci amano.  Serenità  che  noi preserviamo  su tutti e tutto perché è qualcosa di assai più importante del successo, del  denaro e della fama.

Per questo Gianni  brindo ai tuoi 7.0, come ami definirli tu questi settanta , con gioia,  entusiasmo e   persino con  una punta  di orgoglio. Sì, perché la tua, la NOSTRA – io i settanta li compirò il prossimo agosto –   è stata una generazione  ingenua  ma di grande carattere  e forza di volontà, e gli anni che abbiamo vissuto perseguendo i nostri  obiettivi e lottando per loro, sono stati anni irripetibili in tutti i sensi. Parafrasando le parole di una  grande canzone di Frank Sinatra , i nostri anni sono stati veramente: A very mess of good years “.

Un pasticcio di bellissimi anni. Auguri a te, Gianni, dal più profondo del cuore, e mille di questi giorni.

Rita