Cos’è la verità? Una domanda che dai tempi di Pilato fino alla disinformazione dei social attraversa secoli, filosofie, religioni, aule di tribunali e media. La Grazia di Paolo Sorrentino, film di apertura della 82’ Mostra di Arte internazionale di arte cinematografica di Venezia, affronta la questione con coraggio.

LA TRAMA

Il presidente della Repubblica italiana (Mariano De Santis, Toni Servillo in tutta la sua qualità), vedovo, cattolico e con una figlia come fidata consigliere e “custode” (Dorotea, Anna Ferzetti, alla miglior prova attoriale) sta per iniziare il semestre bianco, tempo finale di un apprezzatissimo settennato. “Non è Mattarella” ha dichiarato il regista, “è personaggio di fantasia”, ma molto verosimile. Tra le ultime questioni da affrontare al Quirinale (con i suoi esterni reali e gli interni girati in diverse residenze monumentali tra Torino e Moncalieri) due richieste di grazia (un marito che ha ucciso la moglie malata terminale, una moglie che ha ucciso il marito violento e torturatore). E la legge sull’eutanasia da firmare. Noto per essere un grande giurista, autore di un omonimo e celeberrimo manuale di diritto penale sul quale soffrono generazioni di laureandi (“2046 pagine, Himalaya K3, impossibile da scalare”) da sempre affida la ricerca della verità ai codici, alle procedure, ai riti, ai tempi lunghi della riflessione.

Nessuno crede che affronterà le questioni aperte: tutti bollano il suo stile come intelligente attendismo, un modo per fuggire dalle decisioni. Ma non sarà così. Un Presidente sobrio ma elegante, non per vuota etichetta ma perché la forma è sostanza; le decisioni prese non per compiacere i sondaggi ma dopo la ricerca del fondamento, il tutto con il necessario senso di responsabilità: un formidabile “memento” per la nostra classe politica. La linea narrativa è unica ma è resa robusta e avvincente da tanti ulteriori fili che attraversano il Presidente e i suoi tormenti anzitutto personali, più che istituzionali: il passato che diviene prigione asfissiante, una grandiosa storia d’amore con la moglie alla cui scomparsa non si rassegna, la certezza di un tradimento subito dalla consorte e la spasmodica ricerca dell’amante, il dialogo con Dio interrotto (“quando prego mi addormento”), una questione che lo arrovella (“di chi è il tempo?”).

E l’etica: dove sta la verità? Quale il motore per raggiungerla? Una pesantezza abbatte il suo animo, l’incapacità di rispondere a queste domande. Finalmente la risposta, che non è stampata sul suo manuale o in un articolo del Codice ma in due modi di vivere: l’esercizio del dubbio e la volontà dell’incontro. Con la pars destruens del dubbio che demolisce le false e rassicuranti certezze in cui rifugiarsi per non compiere la fatica della ricerca del vero, e la pars costruens dell’incontro, perché il vero non è astrazione teorica, ma è nel reale. Non per freddo raziocinio, ma perché sono tutte “Conseguenze dell’amore”.

IL COMMENTO DI FAMIGLIA CRISTIANA

Questo il cuore dell’ultimo lavoro del regista napoletano, a volte sanguinante di dolore e fatica, ma capace di irrorare la vita di De Santis e di chi lo circonda. Da qui una riflessione, visto che un film è anche dello spettatore: non è forse vero che la Grazia divina raggiunge l’uomo che autenticamente cerca il vero, così come la verità si da nell’incontro con Cristo, e non in una teoria religiosa? La verità rende liberi, afferma Gesù, così come l’obbedienza ad essa solleva e alleggerisce i passi, a tal punto si vede il Capo dello Stato galleggiare senza gravità nello spazio.

Sorrentino abbandona la comfort zone di Napoli e i suoi luoghi comuni, così come il vortice di frasi tonde, ad effetto ma vuote ed eccessive (Parthenope) per porre domande vere, che inchiodano lo spettatore alla poltrona e alla ricerca interiore. Senza tradire il suo stile, accantona gli eccessi estetici consegnandoci una regia sobria, trattenuta, con alcune invenzioni geniali ma non leziose, bensì risolutive del film. Anzitutto due dialoghi surreali del Presidente: ascoltiamo ma non vediamo una confessione esistenziale fatta in una intervista telefonica con la direttrice di una rivista di moda, e un collegamento mancato con un astronauta in orbita nello spazio che si vede ma non si sente.

Le “sorrentinate” non mancano, (il rapper Guè Pequeno che ad un certo punto vi fisserà guardando in camera, un papa nero con i dreadlock e lo scooter per muoversi nei giardini vaticani, l’irriverente amica di gioventù che visita l’inquilino del Quirinale per “ipotesi di cena”) ma sono tracce d’autore e non ridondanze stucchevoli.

Un film della maturità, citazionista rispetto alla sua filmografia, quasi un compimento di quelle opere in cui è rimasto più in superfice (Youth, Loro, Parthenope), sequestrate dalla ricerca della forma, più che della sostanza. Sarebbe un peccato incatenare il giudizio alla (grave) questione dell’eutanasia e agli esiti accennati: il tema del film non è questo.

La Grazia, che si candida con forza ad un premio a Venezia, smuove dalle false e certezze granitiche (“Cemento armato” è il nomignolo presidenziale) e obbliga alla ricerca della verità dentro relazioni e incontri caratterizzati da tante forme di amore (coniugale, amicale, paterno, dei rapporti di lavoro). Da un film non si attendono istruzioni o risposte, ma le giuste domande per accendere il desiderio della ricerca. I cristiani sanno (sempre?) “cos’è la verità”, è Cristo: spesso però mancano motore e cuore per cercare Colui che per Grazia ci viene incontro.