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Chi vincerà questa 73a mostra del cinema di Venezia? A leggere le pagelle della critica nostrana e internazionale si fa prima a dire chi non vincerà e purtroppo si tratta dei tre film italiani in concorso: il documentario Spira Mirabilis, la commedia Piuma e il romanzo di formazione al femminile Questi giorni. Giudizi a nostro avviso troppo severi, specie nel caso del film di Piccioni che, pur non essendo certo un capolavoro, conferma la sensibilità del regista e ha il merito di rivelare quattro giovani attrici italiane bravissime.
Anche l'ultimo film presentato, Sulla via del latte di Emir Kusturica è stato accolto senza grandi entusiasmi. La storia d'amore tra due anime tormentate sullo sfondo della guerra in Jugoslavia non ha convinto quanti rimproverano l'autore di Underground sostanzialmente di rifare sempre lo stesso film, Invece a noi è piaciuto (anche se una decisa sforbiciata nella parte finale gli avrebbe di sicuro giovato) per l'inventiva visiva del regista nel creare immagini che non si dimenticano, sempre in bilico tra realismo e grottesco, e per la prova della nostra Monica Bellucci, che recita per tutto il film in serbo. Lei è l'unica nostra attrice che da vent'anni ha una solida reputazione internazionale, ha recitato con grandi registi, eppure da noi è stata sempre trattata con sufficienza dalla critica, tanto che tra i colleghi gira questa battuta: "Se recitasse sempre in serbo, sarebbe una brava attrice...". Se dovesse vincere la Coppa Volpi, li zittirebbe tutti, ma non andrà così anche perché la sua prova, pur buona, non può competere con quella superlativa offerta da Natalie Portman in Jackie di Pablo Larrain e da Yuliya Vysotskaya, moglie di Konchalovsky e protagonista del suo Paradise.
Sono proprio questi i due film che ci hanno emozionato di più. Entrambi sono legati a eventi tragici della nostra storia recente. Il primo si focalizza sui giorni immediatamente successivi alla morte di John Kennedy scandagliando l'animo della giovane Jacqueline dilaniato tra il dolore per quanto è accaduto e il suo ruolo a first lady. Il secondo invece ci riporta, con un bianco e nero di grande suggestione, all'Olocausto, raccontando le storie di funzionario collaborazionista francese, di un'aristocratica russa arrestata per aver aiutato due bambini ebrei e di un ufficiale nazista che in passato era stato innamorato di lei e che ora la ritrova in un campo di concentramento. Le vicende dei tre protagonisti sono inframmezzati alle interviste agli stessi da un surreale oltretomba. Un impianto teatrale dunque, in cui all'inizio si fa un po' fatica a entrare ma che con il passare dei minuti svela tutto il suo fascino, tra i dubbi del nazista che avrebbe dovuto laurearsi con una tesi su Cechov quando un suo compagno gli rivela che la prima fidanzata dello scrittore era appena finita in una camera a gas e le riflessioni della bella russa divenuta la sua amante su quanto "poco basti a tornare da animale a essere umano, a pensare alla mie labbra, alla mia pelle, al mio essere donna".
Quando lo abbiamo incontrato, Konchalovsky ci ha detto: "Chi dice di fare film con l'intento di migliorare la gente è un povero illuso. Le persone si sentono migliori solo nei cinque minuti tra l'uscita dal cinema e la fermata dell'autobus che li riporta a casa. Dopo tornano alle loro preoccupazioni". Ammesso e non concesso che sia così, quei cinque minuti non sono comunque tempo sprecato.
Anche l'ultimo film presentato, Sulla via del latte di Emir Kusturica è stato accolto senza grandi entusiasmi. La storia d'amore tra due anime tormentate sullo sfondo della guerra in Jugoslavia non ha convinto quanti rimproverano l'autore di Underground sostanzialmente di rifare sempre lo stesso film, Invece a noi è piaciuto (anche se una decisa sforbiciata nella parte finale gli avrebbe di sicuro giovato) per l'inventiva visiva del regista nel creare immagini che non si dimenticano, sempre in bilico tra realismo e grottesco, e per la prova della nostra Monica Bellucci, che recita per tutto il film in serbo. Lei è l'unica nostra attrice che da vent'anni ha una solida reputazione internazionale, ha recitato con grandi registi, eppure da noi è stata sempre trattata con sufficienza dalla critica, tanto che tra i colleghi gira questa battuta: "Se recitasse sempre in serbo, sarebbe una brava attrice...". Se dovesse vincere la Coppa Volpi, li zittirebbe tutti, ma non andrà così anche perché la sua prova, pur buona, non può competere con quella superlativa offerta da Natalie Portman in Jackie di Pablo Larrain e da Yuliya Vysotskaya, moglie di Konchalovsky e protagonista del suo Paradise.
Sono proprio questi i due film che ci hanno emozionato di più. Entrambi sono legati a eventi tragici della nostra storia recente. Il primo si focalizza sui giorni immediatamente successivi alla morte di John Kennedy scandagliando l'animo della giovane Jacqueline dilaniato tra il dolore per quanto è accaduto e il suo ruolo a first lady. Il secondo invece ci riporta, con un bianco e nero di grande suggestione, all'Olocausto, raccontando le storie di funzionario collaborazionista francese, di un'aristocratica russa arrestata per aver aiutato due bambini ebrei e di un ufficiale nazista che in passato era stato innamorato di lei e che ora la ritrova in un campo di concentramento. Le vicende dei tre protagonisti sono inframmezzati alle interviste agli stessi da un surreale oltretomba. Un impianto teatrale dunque, in cui all'inizio si fa un po' fatica a entrare ma che con il passare dei minuti svela tutto il suo fascino, tra i dubbi del nazista che avrebbe dovuto laurearsi con una tesi su Cechov quando un suo compagno gli rivela che la prima fidanzata dello scrittore era appena finita in una camera a gas e le riflessioni della bella russa divenuta la sua amante su quanto "poco basti a tornare da animale a essere umano, a pensare alla mie labbra, alla mia pelle, al mio essere donna".
Quando lo abbiamo incontrato, Konchalovsky ci ha detto: "Chi dice di fare film con l'intento di migliorare la gente è un povero illuso. Le persone si sentono migliori solo nei cinque minuti tra l'uscita dal cinema e la fermata dell'autobus che li riporta a casa. Dopo tornano alle loro preoccupazioni". Ammesso e non concesso che sia così, quei cinque minuti non sono comunque tempo sprecato.



