Si potrebbe storcere il naso di fronte all’idea di un romanzo su una delle figlie del comandante di Auschwitz Rudolph Höss. Che altro si può dire dopo La zona di interesse (prima il libro di Martin Amis, poi l’omonimo film premio Oscar)? Si tratta forse solo di un’operazione studiata a tavolino per cavalcare un fenomeno? Non è così: il romanzo di Simona Dolce ha una voce autentica, mimetica, come la vera letteratura sa fare. L’autrice riesce a calarsi nello sguardo di una bambina e ci trasporta con una straordinaria vividezza di immagini e vissuti a ciò che è stata l’infanzia di Inge Brigitte nella villa a fianco della più grande fabbrica di morte dei nazisti. Che cosa significava vivere in una famiglia in apparenza idilliaca con un “Vati” amorevole con i suoi cinque figli, a cui insegnava a essere gentili, a rispettare la natura, che non era con loro mai violento e che contemporaneamente sovraintendeva allo sterminio quotidiano di migliaia di persone, tra cui tanti bambini? Nei ricordi, prevale la meraviglia per quella casa così lussuosa, il privilegio di vivere in mezzo ai boschi, di avere una piscina privata, regali costosi, ma soprattutto il senso di amore e protezione che veniva da quel padre affascinante nella sua impeccabile divisa, autorevole e tenero, che sapeva rassicurarla quando di notte le ombre sinistre al di là del muro arrivavano a lambire i suoi sonni gettandola nell’angoscia. Ma, le ripetevano suo padre e sua madre, quello che accade di notte non accade davvero. E quello che Rosamund, alias Inge, si è ripetuta nella sua seconda vita:

«Ero solo una bambina, non avevo colpe, non sapevo, o anche se avevo intuito era troppo orribile per volerci credere e soprattutto Vati era mio padre, il migliore dei padri ». Ma può bastare ad assolversi davvero? L’autrice, come spiega in una nota finale, si è avvalsa di numerose fonti storiche tra cui le memorie dello stesso Höss scritte in carcere prima di essere impiccato nel 1947. Anche l’espediente narrativo è ispirato a una vicenda reale: Inge Brigitte Höss, di cui si erano perse le tracce dal dopoguerra, aveva 80 anni quando fu “scoperta” da un giornalista americano che la intervistò per un articolo che fece il giro del mondo.