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«Con la mia decisione vorrei aprire un dibattito sullo stato dell’informazione in Italia partendo dalle vicende di un settimanale che, nato nel 1955, ha fatto la storia del giornalismo italiano». Marco Damilano, direttore dimissionario dell’Espresso, risponde a botta calda mentre viene reso noto il comunicato che annuncia le condizioni di vendita della storica testata al gruppo Bfc Media, controllato dalla famiglia Iervolino. «Ho presentato le dimissioni venerdì quando ho appreso della vendita da un tweet di un giornalista. Lo stesso giorno mi è stato risposto che non c’era nulla di sicuro. Ma una vendita formalizzata in soli tre giorni è evidente che è frutto di una lunga trattativa di cui io, come direttore, non ero stato messo al corrente. La mia decisione, comunque, non è legata alla vendita in sé o alla figura dei compratori, ma a come è stato trattato il giornale all’interno del gruppo Gedi».
Cosa dice questa vicenda sullo stato dell’informazione?
«Dice che se una delle testate più prestigiose del panorama informativo italiano, con una lunga storia alle spalle, all’interno del gruppo editoriale più importante del Paese, sostenuto da una multinazionale finanziariamente solidissima viene trattato così, allora l’intero sistema è malato ed è necessario dirlo. È necessario che qualcuno faccia anche un gesto in prima persona per sollevare una questione che va al di là della sola vicenda del giornale».
Qual è il motivo della cessione?
«I motivi che sono stati detti anche a me sono due: uno di ordine finanziario, e cioè che il settimanale faceva perdere soldi all’azienda, e uno editoriale e cioè che il settimanale era fuori dal “perimetro”, è stata usata proprio questa parola, delle iniziative editoriali del gruppo Gedi. Rispetto alla prima questione le perdite sono contenute e in linea con quanto avviene nel difficile contesto che attraversa la carta stampata- Sulla questione del perimetro editoriale trovo curioso che il settimanale che poi ha dato vita a Repubblica, nel 1976, la catena dei giornali locali dagli inizi degli anni Ottanta in poi, oggi sia fuori dagli interessi editoriali del gruppo. Ma il mio non vuole essere un discorso nostalgico o solo della memoria del passato. Il dire qual è stata la storia di questo settimanale nei 75 anni di vita repubblicana significa avere consapevolezza di chi sei, di cosa sei, della tua identità e, quindi, anche delle possibilità di cambiamento in questo periodo di transizione al digitale. Non sapere che un gruppo editoriale ha una storia, un’anima, un carattere, significa trattarlo solo come un peso perché i conti vanno male. Questo spinge a decisioni come questa».
Perché è una perdita per la democrazia?
«Nella lettera rivolta ai lettori con cui ho annunciato le mie dimissioni ho citato Aldo Moro, una delle pagine del Memoriale che lui scrisse durante i giorni del sequestro. Era il 1978 e lui vedeva già allora i pericoli di oggi: “La stampa in Italia costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza... la gestione giornalistica è talmente costosa da essere proibitiva... Il Paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale. Infatti, su 20-25 seri giornali è difficile bloccare; su 5 o 6 sì”. Ecco, il vero pericolo è quello di snaturare le testate giornalistiche invece che accompagnarle con successo nella transizione anche digitale. E di non trovare più notizie, informazione, competenze. Stiamo vedendo quanto siano importanti i giornalisti – e un inviato di guerra non si improvvisa – in questi giorni di aggressione all’Ucraina, sappiamo che già sette giornalisti dall’inizio dell’anno sono stati uccisi in Messico perché si sono occupati di corruzione, ricordiamo tutti quelli uccisi in Italia dalla mafia, dal terrorismo, quelli morti mentre documentavano guerre e conflitti. In questo panorama togliere identità a una testata storica come questa è una scorciatoia che contribuisce a indebolire anche la nostra democrazia. Su questo va fatto un dibattito serio, perché non coinvolge solo l’Italia».
Abbiamo citato la guerra in Ucraina. Le testate occidentali stanno lasciando Mosca dopo che il presidente Putin ha annunciato fino a 15 anni di carcere per i giornalisti che non si allineano con le dichiarazioni ufficiali del Cremlino. È una posizione giusta?
«Ne condivido lo spirito: si partecipa alle sanzioni sanzionando l’informazione e poi rendendo visibile quanto sia difficile fare il nostro lavoro con un controllo così oppressivo del governo di Putin. Ripeto, ne capisco le ragioni ma è una scelta dolorosa e molto difficile da accettare perché non riuscire a fare il lavoro lì è comunque una sconfitta»
Cosa farai ora?
«Sono uscito senza paracadute cercando anche di non coinvolgere in questo la redazione. Anzi faccio i migliori auguri ai colleghi e a Lirio Abbate, che è stato a lungo mio vicedirettore, giornalista coraggioso anche nella denuncia dei poteri della criminalità organizzata, e che adesso è stato chiamato a succedermi. Da parte mia volevo fare un gesto libero e individuale. Adesso è appena successo e non so ancora quale sarà il mio futuro. Di certo cercherò di portare da altre parti quei valori che mi hanno insegnato a difendere e custodire, e i miei 21 anni di quel patrimonio di professionalità che ho maturato nella testata e che è stato tramandato di generazione in generazione e che spero non si disperda».



