Le vie dedicate alle donne sono solo il 4%. Ne vogliamo di più. ESAGERATE!
I tassi di occupazioni femminili nel nostro Paese sono i più bassi d’Europa. Vogliamo investimenti e riforme strutturali. ESAGERATE!
Le donne muoiono di alcune note patologie molto più degli uomini perché gli studi medici sono fatti solo su uomini. Vogliamo più dati raccolti in una prospettiva di genere. ESAGERATE!
Il costo della virilità secondo le economiste ammonta a 98 miliardi di euro all’anno, pari al 5% del PIL italiano. Vogliamo si tenga conto di questo dato. ESAGERATE!
Alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non si è sentita dire: «Esagerata!».

È un corso di esageranza, una Stand Up Comedy, che intreccia numeri, dati, storia, sacro e profano, lo spettacolo Esagerate di e con Cinzia Spanò che intende divertire, indignare e soprattutto mettere i puntini sulla i. Anzi sulla ǝ! In scena all’Elfo Puccini di Milano fino al 31 maggio.

Da dove nasce l’idea per lo spettacolo?

«Questo spettacolo si inserisce all'interno di un percorso che per me si intreccia sul piano personale ed esistenziale. Sono un’attivista per i diritti delle donne e ovviamente a un certo punto anche la mia attività di attrice è stata influenzata da questa consapevolezza. Quando ancora non scrivevo i testi, quando ero semplicemente un'attrice che era diretta da registi portavo in scena personaggi femminili. Sentendo la responsabilità di interpretarli, di raccontarli, di dare loro voce, spesso non mi trovavo allineata con la visione che mi davano i registi. Ho lavorato quasi totalmente con registi uomini, registi straordinari sul piano artistico, però uomini. È purtroppo un dato che condivido con tantissime mie colleghe perché la quasi totalità dei registi ancora oggi sono maschi. Quindi, al di là della bravura, hanno comunque uno sguardo, un vissuto, un'esperienza prettamente maschile. A un certo punto mi è quindi venuta voglia di raccontare delle cose che sentivo più vicine a me e da lì è nato il desiderio di scrivere e portare in scena storie che vanno a riscoprire eventi e protagoniste che sono state un po' cancellate e dimenticate dalla storia».

 

E con “Esagerate”?

«Nel caso di Esagerate! ho voluto fare una cosa molto molto diretta invece che evidenzia in maniera ironica, ma dichiaratamente militante, le disparità, le discriminazioni che noi donne subiamo. La maggior parte delle volte percepiamo come una sensazione sottopelle che non riusciamo a decifrare, non capiamo che magari il nostro malessere, il nostro sentire deriva da una disparità che limita la nostra vita. Non troviamo una parola per descriverla. Mi interessava aumentare la consapevolezza delle donne, ma anche degli uomini che vengono a vedere lo spettacolo, su quanto tutto questo impatti sulla nostra vita. Ho inventato quindi una formula ironica: non faccio uno spettacolo, ma un corso, un corso di formazione. Per diventare che cosa? Per diventare quelle che spesso veniamo definite quando cerchiamo di evidenziare un disagio o un'ingiustizia nei nostri confronti: esagerate».

 



Che bisogno c’è di essere esagerate?
«Spesso il nostro disagio viene tacciato di esagerazione. Vogliamo togliere tutta la connotazione negativa che queste parole hanno in modo da diventare orgogliose quando ce lo dicono. Perché effettivamente chi sono le esagerate? Le esagerate sono quelle che evidenziano le discriminazioni, che lottano contro le ingiustizie, che parlano, che si battono e sono quelle tra l'altro che ci hanno preceduto e che ci hanno permesso oggi di godere di alcuni diritti. Sappiamo però che spesso questi ultimi non possono mai essere dati per scontati una volta per tutti, lo diceva già Tina Anselmi. Per i diritti bisogna lottare sempre. Bisogna tutelarli, perché è facile perderli. Non solo bisogna difenderli ma bisogna ampliare sempre di più la consapevolezza in modo da raggiungere uno stato di parità che sia almeno allineato a quello dei paesi che noi consideriamo civilizzati».

Ecco spiegato l’inizio dello spettacolo!
«Inizio facendo vedere la classifica che il World Economic Forum stila ogni anno, che io chiamo la “Champions League delle pari opportunità”, un campionato che coinvolge tutti i paesi del mondo, basato su dati effettivi e che di fatto va a indagare quanto in un Paese le donne abbiano le stesse opportunità degli uomini. Troviamo in cima tutti i paesi più sviluppati perché le pari opportunità sono considerate uno degli indici di civilizzazione: il grado di corruzione, la libertà di stampa, tutte queste cose sono considerate indici di sviluppo di un Paese. Nelle primissime posizioni c'è l'Islanda, al sesto la Germania, al quindicesimo il Regno Unito, al quarantesimo la Francia. Si comincia a scendere e si trovano molti altri Paesi dove mancano tutta una serie di diritti evidenti e palesi. L'Italia è anche oltre: noi siamo al settantanovesimo posto nel mondo. Da lì si parte poi per ragionare, per dire che dobbiamo fare qualcosa, dobbiamo esagerare».

Quindi esagerare non ha una connotazione negativa?
«No, ha una connotazione positiva, gioiosa, di intervento attivo per riprenderci una condizionevitale che ci permette di vivere una vita pienamente vissuta con i diritti che hanno i nostri colleghi: non solamente il diritto di avere lo stesso stipendio, ma il diritto alla salute, per esempio, perché in Italia alcune malattie che riguardano le donne non sono neanche riconosciute dal sistema sanitario nazionale e hanno ritardi di diagnosi di anni pur avendo un impatto invalidante sulla vita delle persone. Quindi è veramente un corso di formazione che poi alla fine dà licenza di esagerare. Tutte le volte che si parla di lotta per la parità, quando ci danno delle esagerate ci si sente sempre delle grandissime rompi scatole: tutti ti fanno sentire di andare fuori misura, di essere una lamentosa. Tra l’altro questo avviene solamente per le questioni di genere. È vero che chi lotta rompe sempre le scatole, però non è una rottura di scatole generalizzata a tutta la collettività. Si rompe le scatole nello specifico alle organizzazioni criminali, alla mafia, alle persone colluse, e invece nelle lotte di genere c’è sempre la percezione di femministe matte che se ne vanno a chiedere delle cose irragionevoli e pesanti».

Dal debutto a Trieste alle repliche milanesi, quali sono stati i commenti e i riscontri rispetto alla tematica portata? 
«Effettivamente ci sono stati riscontri sia a Trieste, sia a Milano. Sono venuti anche uomini del mondo dello spettacolo, critici. Alcuni di loro mi dicevano: “guarda, mi sono emozionato, mi sono divertito, ma soprattutto sono diventato più consapevole, perché certe cose non le avevo proprio mai viste, sentite e prese in considerazione”. Credo sia il tono ironico a permetterlo. La risata è veramente la parte più efficace, perché è piena di vita. È uno spettacolo in qualche maniera rivolto soprattutto alle donne perché spesso sono le donne in primis a non capire quanto questo comprima la propria libertà, la propria vita. Sembrano tutte sciocchezze, ma basti pensare che il lavoro di cura sia ancora tutto sulle spalle delle donne, che in Italia guadagniamo 8000 euro in meno in media all'anno rispetto agli uomini a parità di mansioni. Ad esempio ho parlato recentemente con un'avvocata che mi diceva che di media le avvocate guadagnano la metà dei loro colleghi: si può immaginare come questo si traduca in termini poi di possibilità di far fiorire la propria vita. Noi ovviamente siamo nate e cresciute in questa cultura per cui la giudichiamo normale. Invece dobbiamo cominciare a ripeterci che non è normale che sia normale. Sicuramente il mio primo pubblico sono le donne però il cambiamento grande lo devono fare soprattutto gli uomini. Per me il fatto che ci siano anche loro e che trovino un canale di comprensione rispetto ad alcune cose è molto importante». 

Quindi c’è ancora speranza che l’Italia possa cambiare?
«Vedo degli alleati in giro, sono fiduciosa. Ho anche capito nel corso degli anni che se mi concentro su qual è il risultato della lotta alle volte sono felice alle volte mi deprimo, quindi mi concentro solo sul fatto che nella mia esistenza, fin quando sarò viva, voglio poter dire che ho impiegato così il mio tempo ed è stato importante farlo indipendentemente dal risultato che questa lotta ha portato perché era giusto farlo».

Purtroppo il tema tocca anche le nuove generazioni. Come si rapporta con loro a riguardo? 
«Faccio anche degli incontri a scuola e vengono molti insegnanti con i propri studenti a vedere gli spettacoli: a teatro, in particolar modo, si può creare quello che noi chiamiamo un “contagio positivo“, cioè creare degli anticorpi con cui la collettività può continuare a contrastare le discriminazioni, le disparità e anche la violenza. Sono gli stereotipi che veicolano violenza: non si può pensare di risolvere la violenza se prima non andiamo a lavorare sugli stereotipi che evidenziano un modo di pensare in cui le donne valgono meno. È vero che le nuove generazioni spesso su alcune tematiche ci possono insegnare molto, però non è scontato che questo avvenga perché dipende ancora molto dal contesto in cui si nasce, dagli insegnanti che si hanno, dalla famiglia in cui si cresce. Bisogna aumentare sicuramente sempre di più l'accesso a delle informazioni che possano aprire un'altra via, uno spirito critico e un pensiero che riesce a penetrare realtà che sono molto complesse».

Foto di Laila Pozzo