Eugenio Bennato è appena tornato da un tour in Sudamerica: una nuova tappa del suo viaggio di artista che ha il fine di far conoscere la musica del Mediterraneo. Questo mare non è solo un luogo geografico; è un punto di riferimento artistico per Eugenio fin dagli anni Settanta, quando formò la Nuova Compagnia di Canto Popolare. Oggi il Mediterraneo è lo sfondo da cui prende le mosse Taranta Power, l’ultima idea del cantautore partenopeo. Quarant’anni di carriera vissuti sull’onda della passione musicale e della ricerca filologica, con l’intento di aprirsi a nuovi linguaggi e nuove culture. Un atto d’amore verso la musica popolare.
Popolare è un termine che vuol dire tutto e il contrario di tutto. Per te cosa significa?
«È un termine nobile. La musica popolare non è veicolata attraverso scelte commerciali, fa parte delle radici di un popolo. Questa musica accompagna i momenti della vita di una comunità: nascite, matrimoni, funerali. Non dimentichiamo poi le antiche serenate, i canti di festa e di lavoro. Si tratta di una tradizione molto ricca soprattutto nel sud Italia. Molte di queste canzoni popolari sono stata scritte da autori rimasti anonimi e tramandate per via orale. Quando ho iniziato la mia carriera, ho avuto la fortuna di conoscere alcuni di vecchi maestri e di avvicinarmi a un repertorio ricco di suggestioni».
Da questa ricerca nasce anche la tua attività di direttore di molti festival?
«Sì, tutto è legato al progetto Taranta Power: un’intuizione nata alcuni anni fa attraverso la quale ho cercato di andare alle radici comuni della musica del sud Europa e dell’Africa e all’incontro con altre sonorità».
Il Mediterraneo ha, quindi, un’enorme valenza, a partire dal suo etimo: mare che sta in mezzo alle terre. Qual è il significato di questo mare nella tua ricerca musicale?
«Essenziale. Il Mediterraneo è un ponte della civiltà. Oggi questo mare ci impone una missione: le ondate migratorie ci costringono a fare i conti con la cultura del confronto. È un punto di non ritorno. Come sempre la musica è un passo più avanti. La nuova immigrazione è una linfa di incontri e di sperimentazioni che coinvolgono i giovani musicisti, Inoltre, desidero sottolineare un aspetto che fa riflettere. Mi è spesso capitato di conoscere persone emigrate dall’Africa con un eccezionale background musicale. Si tratta di donne e uomini che qui svolgono i lavori più umili. Con alcuni di loro c’è stato uno scambio di esperienze. Sono venuto a conoscenza di musiche e ritmi che provengono dal Maghreb, dal Marocco, dall’Algeria che hanno arricchito la mia musica. Abbiamo lavorato insieme e scoperto una matrice comune. Non è retorica, ma è la riprova che la musica sia lo strumento migliore per abbattere barriere e avvicinare linguaggi diversi». La musica per essere viva ha bisogno di contaminazione. Per questo non mi ritrovo nella categoria dei puristi che vogliono trasformarle e fossilizzarla in una sorta di reperto museale. La contaminazione è il sale dell’arte come della vita. Attraverso la contaminazione l’arte procede di pari passo con la storia. È un cammino per niente lineare carico di sorprese e di potenzialità»
.
Torniamo al Mediterraneo. Qual è il tuo giudizio sulla recente visita di Papa Francesco a Lampedusa?
«Sono stato colpito come uomo e come artista. Ho terminato da poco un tour in Sudamerica e ho toccato con mano l’attesa, anche da punto di vista mediatico, dell’arrivo del Papa a Rio de Janeiro per la Giornata Mondiale della Gioventù. Eppure Francesco per il suo primo viaggio ha scelto Lampedusa, l’ultima frontiera. Il suo gesto e le sue parole hanno avuto un alto valore simbolico e, mi auguro, anche effetto pratico. Non ci possiamo più sottrarre a temi quali l’accoglienza e l’incontro. La storia non torna indietro. Il viaggio del Pontefice nell’isola siciliana mi ha reso felice anche come artista. Anni fa scrissi una canzone Che Mediterraneo sia nei quali sono presenti molti dei temi affrontati da Papa Francesco».
Com’è il mondo visto dal sud?
«Devo sottolineare un aspetto positivo. Con gli anni il Sud sta perdendo quel senso di autocommiserazione con cui guardava se stesso e si rapporta con l’esterno. Abbiamo imparato a non piangere sempre sui nostri difetti e a domandarci se poi siano veramente difetti. Penso, ad esempio, all’attitudine alla lentezza: un modo di intendere la vita. Bene, in questi tempi superveloci, in cui la Rete brucia tutto in un attimo, riscoprire la lentezza è fondamentale. Questo è uno dei molti insegnamenti che provengono dalla cultura e dalla tradizione del Sud. Un buon auspicio per il futuro».
Popolare è un termine che vuol dire tutto e il contrario di tutto. Per te cosa significa?
«È un termine nobile. La musica popolare non è veicolata attraverso scelte commerciali, fa parte delle radici di un popolo. Questa musica accompagna i momenti della vita di una comunità: nascite, matrimoni, funerali. Non dimentichiamo poi le antiche serenate, i canti di festa e di lavoro. Si tratta di una tradizione molto ricca soprattutto nel sud Italia. Molte di queste canzoni popolari sono stata scritte da autori rimasti anonimi e tramandate per via orale. Quando ho iniziato la mia carriera, ho avuto la fortuna di conoscere alcuni di vecchi maestri e di avvicinarmi a un repertorio ricco di suggestioni».
Da questa ricerca nasce anche la tua attività di direttore di molti festival?
«Sì, tutto è legato al progetto Taranta Power: un’intuizione nata alcuni anni fa attraverso la quale ho cercato di andare alle radici comuni della musica del sud Europa e dell’Africa e all’incontro con altre sonorità».
Il Mediterraneo ha, quindi, un’enorme valenza, a partire dal suo etimo: mare che sta in mezzo alle terre. Qual è il significato di questo mare nella tua ricerca musicale?
«Essenziale. Il Mediterraneo è un ponte della civiltà. Oggi questo mare ci impone una missione: le ondate migratorie ci costringono a fare i conti con la cultura del confronto. È un punto di non ritorno. Come sempre la musica è un passo più avanti. La nuova immigrazione è una linfa di incontri e di sperimentazioni che coinvolgono i giovani musicisti, Inoltre, desidero sottolineare un aspetto che fa riflettere. Mi è spesso capitato di conoscere persone emigrate dall’Africa con un eccezionale background musicale. Si tratta di donne e uomini che qui svolgono i lavori più umili. Con alcuni di loro c’è stato uno scambio di esperienze. Sono venuto a conoscenza di musiche e ritmi che provengono dal Maghreb, dal Marocco, dall’Algeria che hanno arricchito la mia musica. Abbiamo lavorato insieme e scoperto una matrice comune. Non è retorica, ma è la riprova che la musica sia lo strumento migliore per abbattere barriere e avvicinare linguaggi diversi». La musica per essere viva ha bisogno di contaminazione. Per questo non mi ritrovo nella categoria dei puristi che vogliono trasformarle e fossilizzarla in una sorta di reperto museale. La contaminazione è il sale dell’arte come della vita. Attraverso la contaminazione l’arte procede di pari passo con la storia. È un cammino per niente lineare carico di sorprese e di potenzialità»
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Torniamo al Mediterraneo. Qual è il tuo giudizio sulla recente visita di Papa Francesco a Lampedusa?
«Sono stato colpito come uomo e come artista. Ho terminato da poco un tour in Sudamerica e ho toccato con mano l’attesa, anche da punto di vista mediatico, dell’arrivo del Papa a Rio de Janeiro per la Giornata Mondiale della Gioventù. Eppure Francesco per il suo primo viaggio ha scelto Lampedusa, l’ultima frontiera. Il suo gesto e le sue parole hanno avuto un alto valore simbolico e, mi auguro, anche effetto pratico. Non ci possiamo più sottrarre a temi quali l’accoglienza e l’incontro. La storia non torna indietro. Il viaggio del Pontefice nell’isola siciliana mi ha reso felice anche come artista. Anni fa scrissi una canzone Che Mediterraneo sia nei quali sono presenti molti dei temi affrontati da Papa Francesco».
Com’è il mondo visto dal sud?
«Devo sottolineare un aspetto positivo. Con gli anni il Sud sta perdendo quel senso di autocommiserazione con cui guardava se stesso e si rapporta con l’esterno. Abbiamo imparato a non piangere sempre sui nostri difetti e a domandarci se poi siano veramente difetti. Penso, ad esempio, all’attitudine alla lentezza: un modo di intendere la vita. Bene, in questi tempi superveloci, in cui la Rete brucia tutto in un attimo, riscoprire la lentezza è fondamentale. Questo è uno dei molti insegnamenti che provengono dalla cultura e dalla tradizione del Sud. Un buon auspicio per il futuro».


