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GIOELE DIX AL MEETING DI RIMINI
Un vero amico è per sempre. Anche quando non c'è più. Anche quando non c'è più da trent'anni. Al Meeting di Rimini, il 24 agosto, Gioele Dix racconterà la storia della sua amicizia con una persona scomparsa prematuramente tre decenni fa. Lo spettacolo si intitola Diversi come due gocce d'acqua.
Titolo evocativo, eppure un ossimoro: non si dice, di solito, «Uguali come due gocce d’acqua»? «È un verso della poesia Nulla due volte di Wislawa Szymborska: “Cercheremo un’armonia, sorridenti, fra le braccia, anche se siamo diversi come due gocce d’acqua”», spiega. «Essere apparentemente uguali, ma due entità diverse. Il riferimento è a un’amicizia decisiva, tanto da poter dire che ha diviso la mia vita in un prima e un dopo. Il prima della felicità di sentire un’anima accanto, il dopo di sentirsi soli, anche se ci sono stati altri amici».
LO SPETTACOLO DIVERSI COME DUE GOCCE D'ACQUA
Come mai hai sentito il bisogno di raccontare questo rapporto proprio ora, a 30 anni dalla sua scomparsa?
«Ho raccontato questa storia per caso a Otello Cenci, direttore artistico del Meeting, che mi ha proposto di farne uno spettacolo».
Come avevi conosciuto l’amico?
«Renzo era un amico d’infanzia, ci siamo conosciuti nel cortile di casa, l’occasione dell’incontro era stata una chitarra. Ci siamo danzati, sposati e abbiamo avuto un figlio quasi in contemporanea. Amavamo Kerouac, Vonnegut, Miller, Dylan, grazie ai quali avevamo imparato l’inglese. Lui cominciò a frequentare il movimento Gs, che poi diventò Cl (Comunione e liberazione). Il tema di Dio era un tema di dibattito fra noi, lui cristiano, io ebreo: eravamo ragazzi a cui piacevano il calcio, la musica, le ragazze, però ci interessavano anche le questioni importanti, come la fede. La nostra era anche un’amicizia consapevole: ci eravamo dichiarati il piacere di questa relazione, il che non è scontato. Mi vien da dire che ho perso un fratello, un fratello che ho scelto e che vorrei ancora avere: purtroppo un giorno, per un colpo di sonno, è nito contro un muro ed è morto. Avevo 30 anni io, 31 lui. Non avevo mai pensato che da questa esperienza potesse scaturire uno spettacolo, finché non ho parlato con Otello. In quel momento ho capito che, se c’era un luogo in cui avrebbe avuto senso metterlo in scena, era fra la gente di Renzo. Verso Cl, grazie al mio amico, ho sempre avuto un occhio scevro da pregiudizi».
Come hai allestito lo spettacolo?
«Sarò in scena con Sara Damonte, in un pontile sulla sabbia spezzato a metà. Il racconto è strutturato in cinque atti che ripercorrono la nostra storia. Con opportuni ritocchi potrà essere rappresentato altrove, ma ho bisogno di verificare la reazione del pubblico. Recupero suggestioni dell’altro mio spettacolo La Bibbia ha (quasi) sempre ragione, un dialogo disincantato con l’Altra Parte, a cui mi rivolgo direttamente, anche perché credo che, se Dio ci ha fatti a sua somiglianza, anche Lui somiglia un po’ a noi. E ho parecchie cose da dirgli: ad esempio, che mi ha portato via questo amico... Il pericolo era di incorrere nel patetismo, nell’autobiografia, nella strumentalizzazione, invece ho voluto uno spettacolo con le sue regole e, sebbene la morte copra tutto di una cappa pesante, ho tenuto un tono “irriguardoso”, com’era il rapporto fra di noi. È l’occasione per riettere sull’amicizia, sul rapporto con Dio, sui valori... Essendo il mio amico Renzo rimasto “assente” per tanti anni, ho il problema di raccontargli tutto quello che è accaduto. Alla ne decido di... Sarà una sorpresa».
In che cosa eravate diversi?
«Lui aveva una religiosità militante, mentre la mia era individualista. Ero attratto da questo impegno quotidiano, una volta lo seguii per ascoltare Giussani. Lui era una mente scienti- ca, io uno spirito artistico. Era stonato, per cui lui suonava e io cantavo. Avevamo un diverso approccio con il mondo, anche sul piano culturale e religioso, salvo poi essere – come ebbe a dire Giovanni Paolo II – fratelli maggiori». Che cos’è l’amicizia, dunque? «Come l’amore, va coltivata. Non si può stare sempre alla cassa, bisogna fare dei versamenti. Di amicizie ne ho trovate e ne ho perse, lungo la strada. L’amicizia vive di gesti concreti: “Sono nei guai”, e quello viene. Ti muore una persona cara e lui è lì memoria svanisce, se non viene fissata. Nello spettacolo affronto queste suggestioni attraverso la gura di Telemaco, glio del lontano Ulisse».
Nella prossima fiction tv Io sono qui, dedicata a Lucia Annibali (la donna sfigurata con l’acido dall’ex fidanzato), sarai il medico che l’ha curata. Hai avuto modo di conoscerla?
«È una donna tosta, coraggiosa, che ha saputo fare i conti con la sorte che le è toccata. Ha trasformato la disgrazia in un’occasione per aiutare le altre donne».
Alterni diversi registri, comico e drammatico, e ruoli, attore, regista, scrittore: qual è l’elemento unificante?
«Un’inquietudine che mi porta a non accontentarmi mai dei traguardi raggiunti. Ma a tenere insieme tutto è la mia origine teatrale, nella scrittura, nella comunicazione, nel patto con il pubblico, nel riferimento ai testi dei grandi maestri».
Un vero amico è per sempre. Anche quando non c'è più. Anche quando non c'è più da trent'anni. Al Meeting di Rimini, il 24 agosto, Gioele Dix racconterà la storia della sua amicizia con una persona scomparsa prematuramente tre decenni fa. Lo spettacolo si intitola Diversi come due gocce d'acqua.
Titolo evocativo, eppure un ossimoro: non si dice, di solito, «Uguali come due gocce d’acqua»? «È un verso della poesia Nulla due volte di Wislawa Szymborska: “Cercheremo un’armonia, sorridenti, fra le braccia, anche se siamo diversi come due gocce d’acqua”», spiega. «Essere apparentemente uguali, ma due entità diverse. Il riferimento è a un’amicizia decisiva, tanto da poter dire che ha diviso la mia vita in un prima e un dopo. Il prima della felicità di sentire un’anima accanto, il dopo di sentirsi soli, anche se ci sono stati altri amici».
LO SPETTACOLO DIVERSI COME DUE GOCCE D'ACQUA
Come mai hai sentito il bisogno di raccontare questo rapporto proprio ora, a 30 anni dalla sua scomparsa?
«Ho raccontato questa storia per caso a Otello Cenci, direttore artistico del Meeting, che mi ha proposto di farne uno spettacolo».
Come avevi conosciuto l’amico?
«Renzo era un amico d’infanzia, ci siamo conosciuti nel cortile di casa, l’occasione dell’incontro era stata una chitarra. Ci siamo danzati, sposati e abbiamo avuto un figlio quasi in contemporanea. Amavamo Kerouac, Vonnegut, Miller, Dylan, grazie ai quali avevamo imparato l’inglese. Lui cominciò a frequentare il movimento Gs, che poi diventò Cl (Comunione e liberazione). Il tema di Dio era un tema di dibattito fra noi, lui cristiano, io ebreo: eravamo ragazzi a cui piacevano il calcio, la musica, le ragazze, però ci interessavano anche le questioni importanti, come la fede. La nostra era anche un’amicizia consapevole: ci eravamo dichiarati il piacere di questa relazione, il che non è scontato. Mi vien da dire che ho perso un fratello, un fratello che ho scelto e che vorrei ancora avere: purtroppo un giorno, per un colpo di sonno, è nito contro un muro ed è morto. Avevo 30 anni io, 31 lui. Non avevo mai pensato che da questa esperienza potesse scaturire uno spettacolo, finché non ho parlato con Otello. In quel momento ho capito che, se c’era un luogo in cui avrebbe avuto senso metterlo in scena, era fra la gente di Renzo. Verso Cl, grazie al mio amico, ho sempre avuto un occhio scevro da pregiudizi».
Come hai allestito lo spettacolo?
«Sarò in scena con Sara Damonte, in un pontile sulla sabbia spezzato a metà. Il racconto è strutturato in cinque atti che ripercorrono la nostra storia. Con opportuni ritocchi potrà essere rappresentato altrove, ma ho bisogno di verificare la reazione del pubblico. Recupero suggestioni dell’altro mio spettacolo La Bibbia ha (quasi) sempre ragione, un dialogo disincantato con l’Altra Parte, a cui mi rivolgo direttamente, anche perché credo che, se Dio ci ha fatti a sua somiglianza, anche Lui somiglia un po’ a noi. E ho parecchie cose da dirgli: ad esempio, che mi ha portato via questo amico... Il pericolo era di incorrere nel patetismo, nell’autobiografia, nella strumentalizzazione, invece ho voluto uno spettacolo con le sue regole e, sebbene la morte copra tutto di una cappa pesante, ho tenuto un tono “irriguardoso”, com’era il rapporto fra di noi. È l’occasione per riettere sull’amicizia, sul rapporto con Dio, sui valori... Essendo il mio amico Renzo rimasto “assente” per tanti anni, ho il problema di raccontargli tutto quello che è accaduto. Alla ne decido di... Sarà una sorpresa».
In che cosa eravate diversi?
«Lui aveva una religiosità militante, mentre la mia era individualista. Ero attratto da questo impegno quotidiano, una volta lo seguii per ascoltare Giussani. Lui era una mente scienti- ca, io uno spirito artistico. Era stonato, per cui lui suonava e io cantavo. Avevamo un diverso approccio con il mondo, anche sul piano culturale e religioso, salvo poi essere – come ebbe a dire Giovanni Paolo II – fratelli maggiori». Che cos’è l’amicizia, dunque? «Come l’amore, va coltivata. Non si può stare sempre alla cassa, bisogna fare dei versamenti. Di amicizie ne ho trovate e ne ho perse, lungo la strada. L’amicizia vive di gesti concreti: “Sono nei guai”, e quello viene. Ti muore una persona cara e lui è lì memoria svanisce, se non viene fissata. Nello spettacolo affronto queste suggestioni attraverso la gura di Telemaco, glio del lontano Ulisse».
Nella prossima fiction tv Io sono qui, dedicata a Lucia Annibali (la donna sfigurata con l’acido dall’ex fidanzato), sarai il medico che l’ha curata. Hai avuto modo di conoscerla?
«È una donna tosta, coraggiosa, che ha saputo fare i conti con la sorte che le è toccata. Ha trasformato la disgrazia in un’occasione per aiutare le altre donne».
Alterni diversi registri, comico e drammatico, e ruoli, attore, regista, scrittore: qual è l’elemento unificante?
«Un’inquietudine che mi porta a non accontentarmi mai dei traguardi raggiunti. Ma a tenere insieme tutto è la mia origine teatrale, nella scrittura, nella comunicazione, nel patto con il pubblico, nel riferimento ai testi dei grandi maestri».



