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Un ruolo bellissimo quello propostole dalla regista Katell Killévéré in Riparare i viventi, film dal cast e dal gusto tutto al femminile ispirato all’omonimo bestseller in cima alle classifiche dei libri più letti in Francia. Ma anche un personaggio difficile, di quelli che un’attrice, inconsciamente, vorrebbe evitare. Perché Emmanuelle Seigner è mamma di due adolescenti, Morgane ed Elvis, figli avuti dal regista Roman Polanski nel corso del loro lungo e felice matrimonio (nonché sodalizio artistico) che dura ormai dal 1989. E nel film la sua Marianne è appunto una madre lacerata dal dolore che, davanti al corpo esanime di Simon, il figlio diciottenne vittima di un incidente stradale, deve far fronte a quel dilemma morale che nessuno vorrebbe mai avere: autorizzare o meno l’espianto degli organi per salvare la vita di qualcun altro. Oggi se ne parla in Tv e sui giornali ma cosa avviene davvero, che cosa si pensa in un momento così duro che, per naturale pudore, ci risulta difficile perfino solo immaginarlo? Un turbinìo di sentimenti ed emozioni contrastanti che è il cuore (è proprio il caso di dirlo) del film.


Emmanuelle, cosa ha pensato quando le è stato offerto il ruolo?
«Letta per la prima volta la sceneggiatura, ho trovato il progetto interessante ma mi sembrava così duro calarmi nei pensieri, nella sensazioni di una madre di fronte al figlio morente, che ho detto di no. L’istinto è stato quello di prendere il copione e gettarlo nel cestino. Mi stuzzicava però l’idea d’incontrare Katell, che in Francia è considerata la regista più sensibile, talentuosa e promettente della nuova leva».
È lei che è riuscita a farle cambiare idea?
“Sì. È stato un colpo di fulmine. Son rimasta letteralmente sedotta dalla sue luminosità, dolcezza, intelligenza. Dal modo in cui è riuscita a visualizzare la storia facendomi capire che avremmo evitato di scadere nei sentimentalismi. Mai mi era capitato di sentire tanta sgradevolezza e di riuscire a superarla. Ora sono molto contenta di aver fatto il film».


Tratto dall’omonimo romanzo di Maylis de Kerangal, Riparare i viventi (da oggi nei nostri cinema distribuito da Academy 2) è infatti una testimonianza asciutta, scevra da patetismi. Ricca di sensibilità femminile. Si apre sull’alba plumbea di Le Havre. La spensieratezza del diciottenne, Simon, che cavalca le onde con gli amici. L’incidente, sulla via del ritorno: il furgone si ribalta. Simon non ha la cintura: morte cerebrale. Lo strazio di mamma Marianne (la Seigner, qui dimentica della sua bellezza per offrire un prova di toccante bravura) che, distrutta dal dolore, corre in ospedale. Non c’è più nulla da fare. Soltanto il cuore di Simon, giovane e forte, continua a battere. E proprio quel cuore interessa a chi, per mestiere e per vocazione, lotta comunque per salvare vite. Come può però il giovane dottor Thomas (Tahar Rahim) trovare il coraggio, scovare le parole giuste per far breccia nella sensibilità di chi prova tanta sofferenza? La cinepresa segue pudica le frasi, gli screzi, il doloroso stupore della madre a cui viene chiesto di donare il cuore del figlio per salvare qualcun altro. Intanto scopriamo ansie e turbamenti di Claire, cinquantenne parigina da tempo malata e ormai appesa a un unico, esile filo di speranza: il trapianto. A lei basterebbe che i due figli grandi trovassero armonia tra loro invece di azzuffarsi all’idea che la mamma si stia spegnendo. Poi, nella notte, giunge la telefonata: c’è un cuore disponibile. Claire sa che potrebbe non risvegliarsi dall’anestesia. Si mette in moto la collaudata procedura. L’équipe per l’espianto che vola a Le Havre. Il trasporto dell’organo. Un’altra équipe che riceve il cuore e lo mette nel nuovo corpo. Il conflitto morale, la professionalità dei chirurghi, l’empatia per chi è coinvolto, la lotta contro il tempo. Pur asettico nella messa in scena, Riparare i viventi ha una tensione coinvolgente. E’ un film che possiede un cuore pulsante dalla prima all’ultima inquadratura.


Nel 2016, l’Italia ha fatto registrare il record dei trapianti in Europa: oltre 3 mila. C’è però ancora molto da fare…
«Come da voi, anche in Francia è stata approvata la legge per cui viene annotato sui documenti se si desidera o meno essere donatori di organi. Ma questa è un’intelligente soluzione pratica. Ciò che manca è un’effettiva sensibilizzazione sull’argomento. Parlandone prima, non considerando la morte come un tabù, potremmo evitare di rimanere spiazzati da questo dilemma quando il dolore ci offusca le idee».
Una scena toccante è quella in cui Marianne confessa, al di là di tutto, che a farle paura è l’idea che il corpo del figlio sia tagliato.
«Sembrerà banale ma una madre, in preda alla disperazione, può arrivare a soffrire anche solo all’idea che la sua creatura venga sfregiata. Qui entra in gioco un’altra qualità del film, che mostra come oggi le tecniche rispettino al massimo il donatore. Curandosi perfino della sua psicologia. Lo si vede quando il dottor Thomas, esaudendo il desiderio della fidanzata del ragazzo, gli posa sulle orecchie le cuffie perché lui si addormenti per sempre sulle note della sua musica preferita».
Le è capitato di pensare a come reagirebbe in una simile situazione?
«Come non farlo? Ma devo esser sincera: difficile dare una risposta. Ci vuol rispetto, bisogna trovarsi in quella situazione per giudicare. Girare il film, comunque, mi ha aiutata a esorcizzare la paura. Ho capito che quando si perde una persona molto cara, l’idea che qualcosa di lei continui a vivere in qualcun altro può essere una consolazione. Anche senza sapere chi sia questo qualcun altro. Lo si sente dentro».
Emmanuelle, è difficile essere la signora Polanski?
«Per me, è una cosa naturale. Non avrei potuto sposare nessun altro regista o intellettuale. Roman se ne frega dei club, non è affatto snob come invece sono tutti quelli che si dicono artisti. Non so in Italia, ma da noi in Francia ci sono queste élite che sinceramente non sopporto. A volte soffriamo per le pressioni derivanti da certi eventi del suo passato che, ovviamente, fanno parte della nostra vita in comune. Non ci sono segreti tra noi, anche i ragazzi sanno tutto. Quando i media ci assediano, ci facciamo forza pensando alla fortuna di essere insieme e di amarci».
Lei che tipo di madre è: amichevole, apprensiva, autoritaria?
«Sono assai vicina ai miei ragazzi. Ma non sono la loro compagna. È difficile, oggi, saper crescere degli adolescenti. Subiscono così tante sollecitazioni da internet e dai social... Ci vuole fiducia reciproca».



