Race, la storia di J. C. "Jesse" Owens al cinema, in uscita il 31 marzo, diretto da Stephen Hopkins è un film denso, lungo ma con un buon ritmo e dunque non faticoso, e che non fa sconti alla storia. Non a quella dell’organizzazione olimpica del 1936 come strumento di propaganda della Germania nazista certo, ma nemmeno alla storia americana coeva con le sue discriminazioni, con le sue contraddizioni.

Race le fa emergere tutte
, non solo negli atti di bullismo che Owens (Stephan James) subisce in squadra in quanto nero, non solo nelle concessioni – la squadra della staffetta  senza ebrei – ai padroni di casa, non solo nelle discriminazioni razziali evidenti nella vita quotidiana del protagonista e della sua famiglia, e nelle pressioni a favore e contro il boicottaggio che Owens subisce da parti contrapposte del dibattito pubblico.  Ma soprattutto nell’ambiguità del personaggio interpretato da Jeremy Irons, Avery Brundage, membro del Comitato olimpico americano che media, non senza compromessi, con il comitato organizzatore dei Giochi per la partecipazione americana a Berlino 1936.

Il film pone il tema del rapporto tra sport e politica,
 mostra quello che sanno tutti e che si ammette malvolentieri: lo sport è da sempre anche ragion di Stato e organizzare un’Olimpiade è anche (sempre, pur con vari gradi) una manifestazione di potere: ora economico, ora politico, ora d’immagine sullo scacchiere internazionale. Solleva, in materia di boicottaggio, anche il tema dell’ipocrisia, ricorrente, di chiedere agli atleti il bel gesto di essere duri e puri, come la politica in genere non è, non vuole essere e talvolta non può permettersi di essere.

Ma è anche un film, ed è questo uno dei suoi pregi, che racconta una bella storia, ben ricostruita anche dal punto di vista ambientale e sportivo, che fa riflettere, senza la pretesa di dare risposte definitive. Se Jesse Owens avesse dato ascolto ai sostenitori dei diritti civili e del boicottaggio, se si fosse fatto da parte a Berlino 1936 per non gareggiare in casa dei nazisti, la sua rinuncia sarebbe stata un messaggio forte, contro la tesi della presunzione di superiorità degli ariani, quanto lo sono state le sue quattro medaglie d’oro portate a casa da un nero dell’Ohio con radici in Alabama, discendente di schiavi, contro i padroni di casa?

La risposta non è scontata e lo diventa ancor meno se teniamo conto del fatto che la domanda agli interessati si poneva prima del nostro senno di poi: in un senso prima di sapere che cosa avrebbero fatto i nazisti ad Auschwitz e Birkenau, nell'altro senza avere la certezza matematica che il potenziale di Owens non si sarebbe sbriciolato sotto la pressione dell’Olympiastadion di Berlino e del mondo che guardava.  

Anche la credibilità delle scene sportive si salva – ed è raro –:  certo favorita dalla distanza storica, dal fatto di attingere ad antiche foto sgranate e non a filmati che tutti abbiamo negli occhi, e che in genere penalizzano assai il cinema sportivo su vicende recenti.