Berlino ha tutto pronto, l’Olimpiade del 1936 è alle porte, pensata per esibire al mondo senza sbavature l’autocelebrazione della Germania nazista, potenza di fuoco mediatico compresa, predisposta con il film ufficiale Olympia affidato a Leni Riefenstahl. Nelle intenzioni del regime, dovrà servire a “dimostrare” sul campo sportivo la tesi della superiorità ariana su cui Hitler organizza il consenso.
Tutto calcolato nei particolari, salvo uno: il ragazzo dell’Ohio, nipote d’uno schiavo d’Alabama, che sbarca dalla terza classe per mandare tutto all’aria, si prende quattro medaglie d’oro – 100, 200, lungo e staffetta 4x100 – e mostra al mondo, in casa del nemico, che la pretesa superiorità degli ariani è una colossale fandonia costruita dal regime con i secondi fini che la storia ha messo a nudo.
 J.C. “Jesse” Owens, il ragazzo d’ebano che a Berlino corre come il vento, è forse l’icona più potente che la storia dello sport abbia tramandato: una vicenda che aveva già tutti gli ingredienti di un film prima di diventarlo. Settant’anni dopo arriva nelle sale Race, il colore della vittoria, diretto da Stephen Hopkins, con Stephan James nei panni di Owens e Jason Sudeikis nei panni dell’allenatore Larry Snyder. Non sono loro, però, i nomi più celebri del cast, il vero volto noto è Jeremy Irons, cui tocca il ruolo controverso di Avery Brundage, tecnicamente il motore della storia con la “s” minuscola nella pellicola e pure di quella con la maiuscola: se Brundage, membro del Comitato olimpico americano e futuro presidente del Cio, non avesse mediato - compromessi inclusi - contro il boicottaggio degli Usa a Berlino 1936, non ci sarebbe la storia esemplare di J.C. Owens.
«Brundage», racconta Jeremy Irons, scavando nel ruolo, «era un uomo di potere con molti nemici. Uno con le idee chiare, e diretto nell’esprimerle. Aveva fatto i soldi a Chicago nell’edilizia, abituato a trattare con sindacati e mafia, uno che non piaceva a molti. Per interpretarlo ho cercato di scavare sotto la sua reputazione, di trovare l’uomo vero che sta dietro».
Capirlo non è lo stesso che giustificarlo, o addirittura farselo piacere: «Come attore devi saperti plasmare sull’identità di ogni personaggio, per potergli rendere giustizia. Giudicare il personaggio non è affare tuo, non devi cadere nella trappola di misurarlo sulla base delle conoscenze che abbiamo acquisito nel frattempo: il senno di poi è un lusso che non ci protegge mentre viviamo. Chiunque sia l’uomo che interpreti, il tuo compito è entrare in lui e cercare di capire che cosa lo rende quello che è. Nel caso di Brundage, dobbiamo ricordare che al tempo non c’era Internet a far circolare velocemente le notizie e che Avery era uomo del suo tempo: un mese prima che l’America decidesse di non boicottare l’Olimpiade di Berlino, gli ebrei tedeschi furono privati della cittadinanza e del diritto di voto, è vero. Ma non dobbiamo dimenticare che all’epoca i neri in molti Stati americani non avevano il diritto di voto».

SENZA SCHEMATISMI. Giusto ammettere che il film non fa sconti né ai compromessi di Brundage, che si notano tutti, né alle contraddizioni dell’America del tempo, ma lo fa senza lo schematismo manicheo che tante volte si è rimproverato al cinema americano.
«La decisione di Brundage di non schierare i due atleti ebrei nella squadra americana della staffetta», continua Irons, «gli ha giustamente tirato addosso una valanga di critiche fino a costringerlo alle dimissioni. Il film indaga le ragioni sottese, mostra le pressioni cui era sottoposto: negli anni Trenta, Avery era certamente conscio della situazione in Germania. Era stato lì due volte con altri membri del Comitato olimpico e avevano visto che cosa accadeva. Non è probabile che avessero notizie dei lager (Dachau è del 1933, tutti gli altri sono stati aperti dal 1938 in poi, ndr), ma sapevano che il popolo ebraico era sotto attacco come lo sapevano, e non dovremmo dimenticarlo, tutti i Governi del mondo. Per quello che ho capito di lui, Brundage era convinto che influenzare la politica non fosse compito del Comitato olimpico americano».
In Race tutto questo viene fuori, come pure emergono tutti i problemi che Owens ha affrontato in casa: «Il viaggio alla volta di Berlino è stato la sua prima possibilità di stare a tavola con dei bianchi. In America era un cittadino di serie B e pure alla festa per i campioni olimpici americani di Berlino, organizzata in patria, fu costretto a passare dalla porta di servizio».
È la grande questione del rapporto tra sport e ragion di Stato che rimane aperta: troppo grande perché potesse chiuderla con un salto un uomo solo, fosse pure J.C. Owens.