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Correva l'anno 2001, Ambrogio Maestri aveva appena esordito con un Falstaff alla Scala. l'aveva replicato da poche settimane a Busseto davanti ad Azeglio e Franca Ciampi nel bicentenario verdiano. Non era ancora un personaggio, lo stava per diventare, si raccontò in un bar scintillante del centro di Pavia, davanti a un caffè.
Ambrogio Maestri era allora poco più che un ragazzo, 31 anni compiuti da non molto e Falstaff era per tradizione un ruolo da vecchi, da espertissimi, non solo per l'età anagrafica del personaggio. Oggi 15 anni e 249 recite di Falstaff dopo, la 250° sarà il 9 dicembre a Vienna un luogo perfetto per una celebrazione, possiamo dirci che Ambrogio Maestri aveva ragione a dire: «Falstaff sono io», anche se quando si raccontò così non poteva sapere che sarebbe andato così lontano.
Pavia, maggio 2001
La prima cosa che si nota incontrandolo è la sua prestanza fisica, ma succede solo perché cantare non è la prima cosa che fa presentandosi a uno sconosciuto. Quel che di straordinario la natura gli ha dato, infatti, Ambrogio Maestri, 31 anni, lo tiene nascosto nella voce portentosa, quella che l'ha portato in un lampo dai tavoli del ristorante di Albuzzano, in provincia di Pavia, alla parte di un apprezzatissimo Falstaff sul palcoscenico del Teatro alla Scala di Milano, sotto la direzione del maestro Riccardo Muti.
Maestri, corre voce che abbia avuto una carriera fulminea, è vero?
«Canto per mestiere solo da un anno: da quando Oren, sentendomi in un'audizione all'Arena, mi ha voluto con sé. Ho cominciato a studiare da poco, più o meno a 25 anni; prima il canto era solo un hobby: da piccolo, quando i miei andavano a ballare, io finivo sul palco a cantare canzoni melodiche. Paura del pubblico non ne ho mai avuta, ma allora avevo in testa altre cose: i giochi con gli amici, il pallone, come tutti i ragazzi di quell'età».
Da piccoli si pensa sempre a che cosa si vorrebbe fare da grandi: lei come si immaginava?
«Pilota di macchine, oppure di aerei, o magari camionista: la vita ha deciso diversamente».
Quando ha scoperto la lirica?
«Avevo vent'anni: ascoltavo la collezione di dischi che mio padre e mio zio avevano in casa. La musica nella mia vita è comparsa molto prima: a nove anni ho cominciato con il pianoforte, poi però sono arrivate altre cose: la pallacanestro soprattutto. Ero alto come adesso e, allora, magro (ride), giocavo nell'Annabella (la squadra di Pavia anrrivata in Serie A, ndr)».
Vuol dire che ha rischiato di fare un'altra carriera...
«Mah, forse. Io però credo che ci sia un destino: puoi percorrere altre strade, ma alla fine finisce lì. Io giocavo a basket, ma cantavo arie d'opera negli spogliatoi, i miei compagni trovavano anche divertente questa mia stravaganza; mi sembra di risentirli: "Ambrogio, bello quel pezzo, rifallo, dai"».
Quando è entrato per la prima volta in un teatro?
«Sembra incredibile: sono entrato dalla parte del palcoscenico a Trieste. Quando Oren mi ha chiamato a cantare La traviata, non ero mai stato a vedere un'opera, le ho sempre ascoltate in disco».
Com'è cambiata la sua vita? Sembra che per lei ora girare per Pavia sia diventato complicato...
«Già, mi fermano tutti, ma è una complicazione che mi fa molto piacere. Ora ho anche meno tempo di prima, però non sono cambiato: quando sono libero dagli impegni, sto benissimo a casa mia. Gli amici vorrebbero portarmi in vacanza, ma mi ribello: per me che sto sempre in giro, le ferie sono a Pavia».
Ha forse nostalgia del ristorante?
«È stato una splendida parentesi della mia vita, la ricorderò sempre con piacere: cantare con gli avventori mi ha insegnato a familiarizzare con il pubblico, lì il contatto è molto maggiore che in teatro, e a me piace ritrovare dal palco le stesse sensazioni: cerco nel buio della platea le facce delle persone per capire le loro impressioni. È una cosa che mi dà grossa carica, confesso che mi fa ancora impressione anche vedere il maestro Muti là davanti che mi guarda: è davvero un'emozione enorme».
Se non cantasse per mestiere, che cosa farebbe ora?
«Il ristoratore. Se dovessi perdere la voce, tornerei fra i tavoli».
Quando non studia, che musica preferisce ascoltare?
«Un po' di tutto, ho scguito anche Sanremo. Di notte, però, quando sono in macchina da solo, ascolto volentieri trasmissioni parlate».
Quale personaggio d'opera le somiglia di più?
«Falslaff, assolutamente, non solo per il fisico, ma anche per l'atteggiamento mentale: diversamente dalla maggior parte dei ruoli da baritono duri c crudi, Falstaff è un burlone, ama vivere la vita come viene. Io non ho ancora la sua esperienza per via dell'età, ma mc la farò. Una cosa ho già imparato da lui: non mandare mai la stessa lettera a due persone diverse, perché la prendono male».
A quale eroina di melodramma farebbe la corte?
«A Leonora del Trovatore, è una persona determinata, vuole a tutti i costi il suo Manrico: anche se è un amore quasi platonico, lei non si arrende. In un tempo in cui sembra che gli amori si consumino in fretta, a mc capita di pensare che mi piacerebbe una donna come Leonora».
I personaggi della lirica hanno tinte forti, a volte esasperate. In quali quali si trova meglio?
«Mi ritrovo più facilmente nel repertorio semiserio, per il repertorio serio ho la vocalità, ma avrei bisogno di più rabbia. Io magari faccio una faccia brutta, truce (ne mima una, ndr), ma forse non basta: ci vorrebbe un atteggiamento diverso, forse dovrebbero provare a farmi arrabbiare davvero, prima di entrare in scena».
Di che cosa ha paura?
«Avevo paura della morte. Da quando è mancato mio fratello, non ho più paura di niente, aspetto la vita come viene. Mi piace pensare, però, che quello che sto facendo adesso sia un po' anche per mio fratello che non c'è più: non era un amante della lirica, ma sicuramente sarebbe stato felice di vedermi fare carriera; e sono contento anche di poter regalare qualche soddisfazione ai miei genitori».
Ha un sogno?
«Ne faccio tanti, ma non li ricordo al mattino. Vorrei continuare a fare quello che sto facendo al meglio delle mie possibilità: vivo già dentro un sogno, che potrei desiderare?».
In 15 anni nei migliori teatri del mondo, la realtà è certo andata oltre il sogno: e 250 Falstaff ne sono soltanto una parte.
Ambrogio Maestri era allora poco più che un ragazzo, 31 anni compiuti da non molto e Falstaff era per tradizione un ruolo da vecchi, da espertissimi, non solo per l'età anagrafica del personaggio. Oggi 15 anni e 249 recite di Falstaff dopo, la 250° sarà il 9 dicembre a Vienna un luogo perfetto per una celebrazione, possiamo dirci che Ambrogio Maestri aveva ragione a dire: «Falstaff sono io», anche se quando si raccontò così non poteva sapere che sarebbe andato così lontano.
Pavia, maggio 2001
La prima cosa che si nota incontrandolo è la sua prestanza fisica, ma succede solo perché cantare non è la prima cosa che fa presentandosi a uno sconosciuto. Quel che di straordinario la natura gli ha dato, infatti, Ambrogio Maestri, 31 anni, lo tiene nascosto nella voce portentosa, quella che l'ha portato in un lampo dai tavoli del ristorante di Albuzzano, in provincia di Pavia, alla parte di un apprezzatissimo Falstaff sul palcoscenico del Teatro alla Scala di Milano, sotto la direzione del maestro Riccardo Muti.
Maestri, corre voce che abbia avuto una carriera fulminea, è vero?
«Canto per mestiere solo da un anno: da quando Oren, sentendomi in un'audizione all'Arena, mi ha voluto con sé. Ho cominciato a studiare da poco, più o meno a 25 anni; prima il canto era solo un hobby: da piccolo, quando i miei andavano a ballare, io finivo sul palco a cantare canzoni melodiche. Paura del pubblico non ne ho mai avuta, ma allora avevo in testa altre cose: i giochi con gli amici, il pallone, come tutti i ragazzi di quell'età».
Da piccoli si pensa sempre a che cosa si vorrebbe fare da grandi: lei come si immaginava?
«Pilota di macchine, oppure di aerei, o magari camionista: la vita ha deciso diversamente».
Quando ha scoperto la lirica?
«Avevo vent'anni: ascoltavo la collezione di dischi che mio padre e mio zio avevano in casa. La musica nella mia vita è comparsa molto prima: a nove anni ho cominciato con il pianoforte, poi però sono arrivate altre cose: la pallacanestro soprattutto. Ero alto come adesso e, allora, magro (ride), giocavo nell'Annabella (la squadra di Pavia anrrivata in Serie A, ndr)».
Vuol dire che ha rischiato di fare un'altra carriera...
«Mah, forse. Io però credo che ci sia un destino: puoi percorrere altre strade, ma alla fine finisce lì. Io giocavo a basket, ma cantavo arie d'opera negli spogliatoi, i miei compagni trovavano anche divertente questa mia stravaganza; mi sembra di risentirli: "Ambrogio, bello quel pezzo, rifallo, dai"».
Quando è entrato per la prima volta in un teatro?
«Sembra incredibile: sono entrato dalla parte del palcoscenico a Trieste. Quando Oren mi ha chiamato a cantare La traviata, non ero mai stato a vedere un'opera, le ho sempre ascoltate in disco».
Com'è cambiata la sua vita? Sembra che per lei ora girare per Pavia sia diventato complicato...
«Già, mi fermano tutti, ma è una complicazione che mi fa molto piacere. Ora ho anche meno tempo di prima, però non sono cambiato: quando sono libero dagli impegni, sto benissimo a casa mia. Gli amici vorrebbero portarmi in vacanza, ma mi ribello: per me che sto sempre in giro, le ferie sono a Pavia».
Ha forse nostalgia del ristorante?
«È stato una splendida parentesi della mia vita, la ricorderò sempre con piacere: cantare con gli avventori mi ha insegnato a familiarizzare con il pubblico, lì il contatto è molto maggiore che in teatro, e a me piace ritrovare dal palco le stesse sensazioni: cerco nel buio della platea le facce delle persone per capire le loro impressioni. È una cosa che mi dà grossa carica, confesso che mi fa ancora impressione anche vedere il maestro Muti là davanti che mi guarda: è davvero un'emozione enorme».
Se non cantasse per mestiere, che cosa farebbe ora?
«Il ristoratore. Se dovessi perdere la voce, tornerei fra i tavoli».
Quando non studia, che musica preferisce ascoltare?
«Un po' di tutto, ho scguito anche Sanremo. Di notte, però, quando sono in macchina da solo, ascolto volentieri trasmissioni parlate».
Quale personaggio d'opera le somiglia di più?
«Falslaff, assolutamente, non solo per il fisico, ma anche per l'atteggiamento mentale: diversamente dalla maggior parte dei ruoli da baritono duri c crudi, Falstaff è un burlone, ama vivere la vita come viene. Io non ho ancora la sua esperienza per via dell'età, ma mc la farò. Una cosa ho già imparato da lui: non mandare mai la stessa lettera a due persone diverse, perché la prendono male».
A quale eroina di melodramma farebbe la corte?
«A Leonora del Trovatore, è una persona determinata, vuole a tutti i costi il suo Manrico: anche se è un amore quasi platonico, lei non si arrende. In un tempo in cui sembra che gli amori si consumino in fretta, a mc capita di pensare che mi piacerebbe una donna come Leonora».
I personaggi della lirica hanno tinte forti, a volte esasperate. In quali quali si trova meglio?
«Mi ritrovo più facilmente nel repertorio semiserio, per il repertorio serio ho la vocalità, ma avrei bisogno di più rabbia. Io magari faccio una faccia brutta, truce (ne mima una, ndr), ma forse non basta: ci vorrebbe un atteggiamento diverso, forse dovrebbero provare a farmi arrabbiare davvero, prima di entrare in scena».
Di che cosa ha paura?
«Avevo paura della morte. Da quando è mancato mio fratello, non ho più paura di niente, aspetto la vita come viene. Mi piace pensare, però, che quello che sto facendo adesso sia un po' anche per mio fratello che non c'è più: non era un amante della lirica, ma sicuramente sarebbe stato felice di vedermi fare carriera; e sono contento anche di poter regalare qualche soddisfazione ai miei genitori».
Ha un sogno?
«Ne faccio tanti, ma non li ricordo al mattino. Vorrei continuare a fare quello che sto facendo al meglio delle mie possibilità: vivo già dentro un sogno, che potrei desiderare?».
In 15 anni nei migliori teatri del mondo, la realtà è certo andata oltre il sogno: e 250 Falstaff ne sono soltanto una parte.



