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Una giovane attrice sarda, Barbara Pitzianti, porta al cinema la vita e l’anima di Grazia Deledda, scrittrice cattolica e prima e unica donna italiana a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura nel 1926. Un film biografico che non è solo un omaggio a una delle più grandi voci della letteratura italiana, ma anche un viaggio nelle radici, nella fede e nella forza di una donna che seppe affermare la propria voce in un mondo che non la prevedeva. Il film, nelle sale dal 9 ottobre (prima in Sardegna, poi in tutta Italia), è diretto da Paola Columba e prodotto da Fabio Segatori, anche coautore della sceneggiatura. Si ispira a Cosima, il romanzo autobiografico postumo e incompiuto della Deledda. Nel cast, anche Donatella Finocchiaro nel ruolo della madre di Grazia.Abbiamo incontrato Barbara Pitzianti, interprete della giovane Grazia, per capire come ha vissuto questa esperienza e quanto l’opera della scrittrice sia ancora attuale per le nuove generazioni.
Barbara, la sua prima esperienza cinematografica è proprio nel ruolo di una scrittrice sarda. Che emozione è stata?
«Un onore immenso. Il film racconta Grazia negli anni della formazione, fino alla partenza, ventinovenne, per Cagliari e poi Roma: prima del Nobel, prima della gloria. È Grazia prima di diventare la Deledda. Non credevo di superare il provino: era il mio primo set e stavo studiando recitazione a Londra. Ma ho sentito subito che era una chiamata forte. Mi sono immersa completamente nel personaggio, nelle sue opere, nel suo tempo. Ho sentito la responsabilità di renderle giustizia».
Dove avete girato il film?
«Soprattutto nel Nuorese e a Galtellì, dove la Deledda soggiornò e ambientò Canne al vento.La Sardegna che raccontiamo è quella antica, intatta. C’è stato un lavoro accurato su costumi, ambienti, utensili, oggetti. Io stessa ho imparato il logudorese, la lingua sarda del Nord: venendo dal Sud parlo campidanese ed è stata una vera sfida. Le scene in sardo antico, sottotitolate, restituiscono l’anima autentica di quella terra, patriarcale e chiusa, ma piena di forza e di luce».
Chi era, per lei, Grazia Deledda?
«Una ragazza che sognava di scrivere quando alle donne non era concesso neppure studiare. Aveva una terza elementare, ma la volle ripetere due volte pur di imparare. Era un’autodidatta, spinta da una fede e da un desiderio di libertà che l’hanno resa rivoluzionaria. Si sposò e fu madre, ma non rinunciò alla scrittura. Voleva vivere del proprio talento, non all’ombra di un uomo. E il marito, infatti, lasciò il lavoro per seguirla: un gesto impensabile allora. Pirandello, forse infastidito, le dedicò persino una satira, Suo marito. Ma lei restò fedele alla sua visione: scrivere era la sua vocazione».
In cosa si riconosce di più in lei, come donna e come sarda?
«Nella determinazione e nella fede. Grazia non si è lasciata fermare dai giudizi del paese né dai limiti del suo tempo. Ha trasformato il dolore in arte, e in questo la fede è stata la sua forza segreta. Era una donna di profonda spiritualità: sapeva che solo credendo nel bene si può restare liberi. Il film è anche questo: una riflessione sull’eroismo silenzioso delle donne, sulla condizione femminile e sul senso del dovere».
La dimensione spirituale è centrale nelle sue opere. Come è stata resa nel film?
«Il film è girato in soggettiva: la macchina da presa segue Grazia come se fosse dentro i suoi pensieri. La voce fuori campo, le preghiere, i momenti di silenzio mostrano il suo dialogo con Dio, la sua spiritualità. La fede non è raccontata in modo retorico, ma come presenza intima, guida costante nella sua lotta interiore».
Pensa che il suo messaggio possa parlare ancora ai giovani?
«Sì, profondamente. Attraverso la sua giovinezza raccontiamo come la dimensione familiare, artistica e spirituale siano inseparabili. La sua fede ispirava la sua arte, il suo modo di osservare la natura e gli uomini.Era severa con se stessa, ma la sua severità era sempre orientata al bene. La sua lotta interiore, tra desiderio e dovere, è attualissima».
C’è una scena che l’ha colpita in modo particolare?
«Sì, quella del primo amore. Grazia ha paura di non essere abbastanza, di essere brutta, teme il rifiuto.È un sentimento universale: mi ci sono riconosciuta perché anche io ho vissuto un’esperienza simile. In quel momento ho sentito la sua fragilità e la sua grandezza insieme».
Se vivesse oggi, quale battaglia porterebbe avanti?
«Quella per l’emancipazione femminile. Nonostante i progressi, le disparità restano: nei salari, nei ruoli, nel modo in cui la donna viene percepita. Grazia avrebbe combattuto contro i femminicidi, ma con la sua misura: una ribellione etica, mai rabbiosa. Era una femminista della fede, come direbbe qualcuno. Lontana dal femminismo più esasperato di Sibilla Aleramo. E se penso a una voce contemporanea che ha sfidato gli schemi, forse Michela Murgia è stata un po’ la Deledda dei nostri tempi».
Cosa le ha lasciato questa esperienza?
«Mi ha cambiata. Come artista e come persona. Paola Columba mi ha insegnato l’ascolto, la misura, la verità nel recitare, a modulare la voce. Il mestiere di attrice, insomma. E Grazia mi ha insegnato la costanza, la fede, la libertà di credere nei propri sogni anche quando sembra impossibile».
La lezione più grande che Grazia ha lasciato?
«Che la fede e la tenacia possono rendere possibile ciò che sembra destinato a restare sogno. Il film è educativo, anche per le scuole. La sua storia è un messaggio per i giovani: se si crede davvero in qualcosa, senza alternative, allora la vita trova la sua strada».



