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Nel mezzo del cammin della terza serie, la cui terza e penultima puntata va in onda su Rai Uno martedì 18 novembre, in anticipo sulla scansione iniziale che prevedeva quattro lunedì, abbiamo lasciato il Commissario Ricciardi nel punto esatto dell’incrocio tra l’amore che sta scoprendo e il dolore che lo attanaglia, il momento in cui confida alla fidanzata, ormai ufficiale, i suoi fantasmi. È l’attimo che forse chiede a Lino Guanciale, che ormai del Commissario uscito dalla penna di Maurizio De Giovanni è il volto efficacissimo e ufficiale, il massimo dell’intensità, ancorché trattenuta come è quella di questo personaggio quasi in grisaille.
Guanciale, lei ha detto più volte che avrebbe voluto qualcosa di Ricciardi, ma davvero vorrebbe assomigliare a un personaggio così tormentato e ombroso?
«Onestamente sì, ma non tanto per le sue tenebre, non tanto per il fardello che si porta addosso, (il dono/maledizione di vedere e sentire l’ultimo pensiero delle vittime di morte violenta, ndr.) chi lo vorrebbe quello? Mi piacerebbe assomigliargli nella capacità che ha di restare fedele a un'idea di giustizia molto precisa, a un'idea di relazione con gli altri molto pura, molto delineata e fedele soprattutto a una grande scelta empatica nei confronti dell'umanità: Ricciardi vive per mettere a frutto un dono che è anche una maledizione, ha scelto il suo lavoro (anche se economicamente potrebbe permettersi di vivere di rendita ndr.) per lasciare il mondo un po' migliore di come l'ha trovato. E questo principio informa tutta la sua vita. Ecco, a me piacerebbe avere questa grande coerenza, questo grande coraggio, questa grande forza».


In questa terza serie arrivata al 1933 si sente il regime farsi più opprimente, come vive Ricciardi i suoi tempi?
«In qualche modo, abituato com’è a vivere immerso nel dolore umano, inizialmente secondo me sottovaluta l'abisso in cui sta scivolando il suo Paese, l'Europa tutta, il mondo intero, per la perniciosa deriva ideologica nazifascista, però è anche uno che sa guardare la realtà negli occhi, che sa fare scelte precise e non si piega a far parte di quella zona grigia che si fa andare tutto bene. Somiglia tantissimo al protagonista della Peste di Camus, il dottor Rieux, che mentre la peste infuria si tiene stretto al suo principio per cui l'importante è fare bene il proprio mestiere. Ecco, per Ricciardi questo significa non mancare mai al dovere di rendere giustizia per gli altri».


In questo senso le tre figure maschili di questa serie, Ricciardi da protagonista, Maione e Modo più defilati, si corrispondono: nessuno dei tre è allineato, nessuno dei tre si sente a casa nella deriva in cui si trovano, pur essendo profondamente diversi. Lei come ha fatto a capire la sensibilità di Ricciardi in questo aspetto?
«Io mi sono fatto guidare dai romanzi, perché credo che un principio guida del nostro mestiere sia quello di stare alla scrittura senza adombrare l’interpretazione con un pregiudizio o un giudizio sui personaggi, senza sovrapporre anche il nostro punto di vista. Mi sono affidato alla lettera dei romanzi: ci sono dei momenti in cui forse io mi sono detto che avrei cercato di agire in maniera diversa rispetto a Ricciardi, ce ne sono stati invece molti altri in cui mi sono detto: “Ecco, Impara!”. In situazioni di un certo tipo sarebbe davvero importante sapere reagire come lui. Il grande merito di Maurizio De Giovanni è, oltre all’aver composto una saga letteraria di così grande e non casuale successo, è l’aver scolpito personaggi belli, profondi, pieni di sfaccettature e di possibilità per gli attori e le attrici che li interpretano: sono tutti personaggi in qualche modo “rotti”, feriti, si trovano davanti molteplici crisi da attraversare. Se resti aderente al modo in cui il personaggio affronta tutte le sue transizioni, è lui che ti prende per modo mano».


Interpretare un personaggio di quell’epoca aiuta a elaborare la distanza storica?
«Riattraversare quegli anni a ritroso, dalla posizione della consapevolezza dell’oggi, ti deve servire a individuare con chiarezza chi ha fatto scelte giuste e scelte sbagliate, senza lasciarsi però andare a facili giudizi. Ricciardi, come anche L’irresistibile ascesa di Arturo Ui a teatro anni fa, mi ha dato il modo di immergermi a fondo nello studio di quel periodo, che io penso dovremmo trattare come se fosse il nostro presente. Mi spiego: io non credo all’equazione oggi = ieri, sarebbe banalizzare la storia e ammettere che ci si deve rassegnare al fatto che il mondo non cambia mai e invece cambia continuamente. Ma ci sono momenti in cui le persone riescono a “spingere” la storia nella direzione giusta: penso ai Padri costituenti, ai primi che hanno elaborato i prodromi dell’Unione europea. Ecco, io credo che si debba esserne all’altezza».


Ricciardi è un personaggio, dal punto di vista cinematografico, molto sfumato: ha una grande profondità, tutta espressa in increspature minute, non ha in genere reazioni teatrali. Questo dal punto di vista della sfida dell'attore che cosa rappresenta?
«È molto più difficile. Questo personaggio mi ha posto davanti alla difficoltà di stare decisamente aderente a un principio che condivido: “less is more”. (Un modo di dire inglese che allude il valore aggiunto dell'essenzialità, ndr.). Quando devi recitare “a togliere”, hai la responsabilità di curare al massimo quel “meno” che fai, cercando di renderlo il più potente possibile. La cosa che accade però in questa stagione in particolare è che con la sua misura poi Ricciardi ha dei momenti in cui va fuori giri, e quello è davvero sorprendente, come nel finale della prima puntata, perché dove c'è una misura di fondo poi la trasgressione è molto più potente, molto più riconoscibile: se tu monti da subito una interpretazione tanto costruita sull’eccesso espressivo, poi diventa tutto un allarme continuo, invece con un personaggio come Ricciardi le “emergenze” sono molto più efficaci e riconoscibili».
Come fa un timido, come dice di essere, a fare l’attore?
«Credo che i timidi siano quelli che alla fine riescono a farlo con maggiore onestà, nel senso che se si va a fare una cernita degli attori che dichiarano di essere timidi se ne trovano moltissimi: alcuni mentono spudoratamente, gli altri, la maggior parte, effettivamente lo sono, ma il punto è che il palcoscenico non è come si pensa un luogo soltanto di esibizione. Per molte persone, per me di sicuro è stato così, coincide con l'unico spazio in cui a un certo punto si ha la folgorazione di riuscire a entrare in comunicazione con gli altri: quel silenzio perfetto, quella comunione perfetta tra attori e attrici in palco e spettatori e spettatrici in platea è irripetibile come sensazione, e quando quella cosa lì si realizza tu senti di poter essere te stesso. So che è paradossale, ma il palcoscenico non è un luogo dove ti metti delle maschere, è un luogo dove te le togli. E i timidi in realtà sono quelli che non aspettano altro che di potersi prendere una tregua da un mondo che invece ci costringe in ogni momento della vita a vestire delle maschere».


Adesso tutti leggono Ricciardi dandogli il volto di Lino Guanciale. Quando lo ha immaginato da lettore, lo ha pensato come lo rivede adesso quando si rivede nella serie?
«Tutti ma non io. Io non ho mai immaginato Ricciardi in modo preciso, leggendolo da lettore, prima. Anche quando poi mi hanno proposto di interpretarlo e con grande impegno ho dovuto studiare la serie, per sprofondarmi in questo suo mondo, continuavo comunque a non immaginarlo con la mia faccia, perché se no questa cosa mi avrebbe mandato ai matti, mi avrebbe fatto sentire al quadrato il senso di responsabilità che già avvertivo fortissima nel dover intrpretare un personaggio così amato. Non devi pensare che poi quel personaggio porterà il tuo impermeabile, metterà le tue mani nella tasca, che avrà le tue spalle, la tua schiena, i tuoi capelli, compreso il tuo ricciolo ribelle. Se ci pensi questa cosa ti paralizza. Io quando leggo le sceneggiature continuo a immaginarmi un Ricciardi che non ha delle fattezze molto precise, io immagino soltanto due enormi occhi verdi in cui sprofonda il mondo intero. Ricciardi è il personaggio più empatico del mondo, che porta una specie di apparente corazza anti-empatica, e tutta questa enorme umanità la percepisce attraverso quei due meravigliosi pozzi verdi che gli occhi, ma se mi mettessi a pensare che gli occhi verdi sono i miei, chi gliela farebbe?».


Ricciardi scappa, ma fa innamorare donne molto diverse. Come si costruisce in un personaggio così trattenuto, il rapporto diverso con almeno tre figure femminili: l'amica Bianca, Livia una femme fatale piena di fragilità, e poi Enrica, la figura di riferimento che lui sbircia attraverso la finestra e in cui sembra specchiarsi?
«Enrica e Ricciardi sono persone per motivi diversi non allineate rispetto al mondo in cui vivono e forse non allineabili al mondo in qualunque epoca, destinati ad essere a disagio rispetto alle convenzioni cui la maggior parte delle persone si conformano. Con Enrica c’è una sorta di reciproco riconoscimento, questo rende l’idea del rapporto fra i due. È possibile in effetti che la finestra, come uno specchio rappresenti anche questo. Mentre Livia e Bianca sono due figure importanti nel suo percorso cui Ricciardi si avvicina per motivi diversi: a Biana per l'enorme affinità elettiva, a Livia per l'esperienza di uno scatenamento passionale che per Ricciardi è qualcosa di nuovo, significativo nella sua evoluzione. Ricciardi tanto più si vede avvicinato a queste tre diversissime figure, quanto più dimostra loro che sono per motivi diversi donne portatrici anche di una femminilità non allineata alle convenzioni del mondo. Forse è la cosa che le porta ad essere prossime a un uomo che è evidentemente conforme a un'idea di maschio, di virilità, del tutto aliena rispetto a quella vigente. Io credo che la forza seduttiva di questo personaggio si trovi proprio nel fatto che rifugge dai cliché sul maschile di quell’epoca e di ogni tempo e che in questo ci sia la sua modernità».



