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Alla prima conferenza stampa di Sanremo, quando per molti era ancora quasi uno sconosciuto, Lucio Corsi si è presentato con la sua chitarra e ha cantato una canzone inedita, Francis Delacroix, che sarebbe uscita solo due mesi dopo. Alla semifinale dell'Eurovision song Contest del 13 maggio in onda su Rai 2, invece, dove il regolamento obbliga i concorrenti a cantare su una base registrata vietando quindi di suonare dal vivo, porterà con sé un’armonica «perché potrò farla passare dallo stesso microfono della voce e così non potranno zittirla». Ecco spiegato il grande successo di Lucio Corsi, che ha sfiorato la vittoria a Sanremo con Volevo essere un duro: dopo anni di omologazione, di cantanti tutti uguali e di musiche plastificate, è apparso come un alieno atterrato da un pianeta che sembrava scomparso, quello dei cantautori che conoscono bene la musica e ne fanno lo strumento per esprimere il loro mondo.
Un artista controcorrente anche nel fatto che è arrivato al grande pubblico a 31 anni e non attraverso i follower sui social, ma dopo una lunga gavetta che ora ricorda così: «Ho deciso di fare questo lavoro da bambino dopo aver visto i Blues Brothers perché mostravano il musicista come un supereroe: poteva cascargli un palazzo addosso, ma loro si davano una spolverata e ripartivano da capo. E io ho fatto un po’ così: ho continuato a scrivere canzoni anche se le prime 50 facevano schifo e ho continuato a suonare anche quando nei concerti non c’era nessuno a sentirmi. Ho suonato tanto anche per strada ed è stata una grande lezione per imparare a far sì che gli altri si accorgano di te».
Oggi invece le date del tour primaverile sono già tutte esaurite. E il nuovo album, che ha lo stesso titolo della canzone sanremese, vola nelle classifiche. La bellissima copertina raffigura, come negli altri dischi, un quadro di mamma Nicoletta. Lucio, a proposito della pittura, dice di «amare in particolare Antonio Ligabue. Mi commuove sempre pensare a lui quando, ogni volta che finiva un quadro, se lo metteva sulle spalle e andava in giro in moto per farlo vedere al paese. Volava con la fantasia: non aveva mai visto una tigre dal vivo e dipingeva queste tigri enormi, che incarnavano l’essenza dell’animale. Anche su un palco si può evadere dalla realtà. Ma poi, quando si scende, bisogna tornare a mantenere i piedi ben saldi a terra e non sentirsi chissà chi».
Saldi come gli ulivi della Maremma toscana dove il cantautore è nato e cresciuto e che, come canta in Volevo essere un duro, «si inchinano soltanto sotto il peso della neve. Sono fortunato a essere nato lì e a poterci tornare: è un luogo dove impari a dialogare con la noia e non a fuggire da lei. Perché passando dentro alla noia ho trovato le canzoni che mi fanno viaggiare dove mi pare . Come Paolo Conte, che quando canta “Sudamerica, Sudamerica...” è lì, anche se l’ha scritta nella sua casa di Asti. Pure gli strumenti musicali sono dei potentissimi mezzi di trasporto: da sempre, quando le cose mi vanno male, mi metto al pianoforte. Il primo strumento, però, è stata l’armonica, che ho imparato da mio padre». In campagna, aggiunge il cantautore, «il silenzio e il buio ci sono davvero, non come in città. E il silenzio è fondamentale anche nella musica: gli strumenti “parlano” solo quando c’è bisogno, altrimenti stanno zitti. Dovremmo imparare da loro».
Volevo essere un duro è una canzone autobiografica e anche nel resto del disco Lucio racconta della sua vita: «Ci sono tante amicizie, tanti amori, tanti personaggi, alcuni reali e altri immaginari, perché mischiando la mia storia con quella di altri si crea la possibilità di guardarti alle spalle e sorprenderti».
Il disco segna anche un cambiamento nella scrittura dei testi: «Prima cercavo di parlare delle persone attraverso eventi come il buio, il sogno, oppure attraverso gli animali che popolano la Maremma. Qui invece ho cercato di parlare delle persone in modo più diretto, ho cercato di riprendere le cose da un marciapiede e non più da un drone. Volevo imparare a farlo perché molti dei cantautori che amo sono stati dei maestri in questo: Lucio Dalla, Ivan Graziani, Rino Gaetano sapevano essere diretti senza rinunciare alla dimensione della fantasia perché ognuno di noi, anche se in apparenza porta con sé una storia piccola, ha una dimensione epica. Ed è una forma di racconto che oggi si è persa un po’ nella canzone italiana: si privilegiano i momenti, gli stati d’animo individuali. Invece così chi scrive e quindi anche, dopo, chi ascolta è come se conoscesse nuove persone. Vedo come un rebus la lingua italiana messa sulla musica, perché le parole hanno sempre un valore anche ritmico di cui occorre tener conto quando le si sceglie. Incastrare le strofe una dopo l’altra è sempre un viaggio bellissimo».



