PHOTO


L'ultima polemica l'ha scatenata Annamaria Bernardini de Pace, che ha minacciato di restituire il riconoscimento se quiest'anno venisse assegnato alla Sumud Flotilla. Ogni anno l’Ambrogino d’Oro riaccende il dibattito sui valori, sul merito e sulla memoria civica di Milano. C’è chi lo considera un simbolo dell’impegno silenzioso, chi invece lo accusa di essere diventato un campo di battaglia politica. Ne parliamo con Giangiacomo Schiavi, già capocronista e vicedirettore del Corriere della Sera, grande conoscitore della metropoli, firma attenta alla Milano solidale e concreta, per capire se dietro le polemiche resista ancora lo spirito originario del premio: quello di una città che riconosce, con sobrietà e gratitudine, chi costruisce bene comune.
Milano è da sempre città del merito e del fare silenzioso. L’Ambrogino conserva ancora questo spirito o è cambiato?
Purtroppo si sta trasformando in un premio mediatico e politico. Restano però figure straordinarie, “eroi del piccolo”, come li chiamo io: persone che si spendono per la città, spesso premiate alla memoria. Accanto a loro, purtroppo, convivono candidature nate più per visibilità che per merito. Eppure l’anima originaria resiste: non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca.
Ogni anno il dibattito si accende. L’Ambrogino è diventato una “clava” politica?
Capita, sì. A volte il centrodestra, quest’anno il centrosinistra con la proposta della Flotilla, fuori contesto rispetto alla Milano concreta. È un modo per farsi pubblicità. Non è colpa dei destinatari, ma di chi usa il premio come megafono. Si rincorre la visibilità, il consenso facile. L’impegno civico, quello vero, non passa dai like.
Esistono ancora i personaggi straordinari? Chi sono?
Altroché. Milano ne è piena. Penso al pensionato che, grazie al quartiere, ha ritrovato una casa e una comunità. Penso a chi assiste un figlio fragile, ai volontari che si mobilitano per gli altri.
Nel Corriere Milano la rubrica delle lettere è uno spazio che offre ai cittadini la possibilità di segnalare casi e problemi della vita milanese. I lettori documentano piccole e grandi assurdità, spesso situazioni che non trovano un interlocutore, e insieme cerchiamo di ridurre le distanze tra cittadino e burocrazia.
Da lì emergono storie commoventi, gesti di altruismo silenzioso che raccontano una Milano viva, solidale, che non finisce mai di stupire. L’Ambrogino dovrebbe setacciare proprio questo: la santità quotidiana del bene comune.
Quali valori dovrebbero tornare al centro del Premio?
Solidarietà davanti a tutto, poi discrezione del fare e meritocrazia. Chi fa del bene non cerca applausi. Come diceva il cardinale Martini, abbiamo bisogno di “esempi imitabili”: anticorpi civili in una società che corre e dimentica. Raccontarli è già un atto di cura.
L’ambrogino può tornare a essere un premio percepito come “serio”, fondato sul servizio e sull’etica pubblica?
Sì, basta applicare il buonsenso. Penso a Marco Pedrini, che si è battuto per l’Anffas e per il “dopo di noi”. Queste persone anonime, che si muovono controcorrente in una società dominata da potere, arroganza e disuguaglianza, meritano davvero l’Ambrogino. Il nostro compito come giornalisti è farle emergere. Perché fare del bene sotto voce, come insegnava San Francesco, è il modo più alto di amare la città.
Come dare visibilità al tessuto silenzioso della città?
Bisogna cambiare narrazione. Come diceva il mio amico Candido Cannavò: “Cerchiamo di raccontare anche le vite giuste”. Io ho in più occasioni parlato dell’“Angelo invisibile”, un benefattore che aiutava concretamente i poveri a rialzare la testa leggendo le loro storie sui giornali. Mi telefonava e mi “usava” come tramite. Poi spariva. Ha fondato una realtà che si chiama “Condividere”, in collaborazione con Caritas. È morto, purtroppo, un anno fa, ma la sua lezione resta: chi ha tanto può togliere un po’ di superfluo per restituirlo agli altri. Lui sì che meritava l’Ambrogino.
Che ruolo può avere la stampa nel riportare il discorso sui valori autentici?
Il nostro mestiere, se fatto bene, si avvicina a un’idea evangelica: portare avanti chi è rimasto indietro. Raccontare il bene, non solo il male. Per farlo servono mezzi, ma anche una scelta di campo etica. Forse, unendo le forze di Famiglia Cristiana e del Corriere della Sera, potremmo dare più voce alla Milano che non si mette in mostra, ma costruisce ogni giorno la sua anima civile.



