PHOTO
Prima di noi, un gruppo di ragazzini incontra Mika nella sede della sua casa discografica. Lui intona al pianoforte Grace Kelly, uno dei suoi più grandi successi e rivela di essersi ispirato per alcuni passaggi al Barbiere di Siviglia. Poi risponde alle loro domande. Un ragazzino gli chiede del bullismo di cui è stato vittima durante l’adolescenza. Lui si fa serio: «I sentimenti che provi in quei momenti, la rabbia, la vergogna, non li dimenticherai mai più».
«Non mi va di essere, “how do you say?” (“come si dice?”, ndr) accomodante», ci spiega dopo. «Specie con i bambini: più di tutti hanno il diritto di essere trattati con onestà. Ho capito la prima volta di avere “l’X Factor” a 18 anni, durante un concerto a scuola. Tutti mi applaudivano, anche un ragazzo che mi aveva rovinato la vita per quattro anni. L’ho guardato negli occhi e ho pensato: “In quello sguardo di sorpresa c’è la mia libertà”». Come sa chi ha visto X Factor in Tv, Mika parla molto bene l’italiano. Spesso si interrompe e chiede all’interlocutore: “How do you say?”. Perché non sopporta l’approssimazione, come dimostra anche nel suo nuovo disco, No place in heaven, un caleidoscopio di suoni e di stili assemblati con grande cura.
Quale canzone ti piace di più?
«Forse Last party, perché racchiude tutta la musica che mi piace: il pop, l’elettronica e pure un omaggio alla musica di chiesa che tanto è stata importante per me».
Perché?
«Ho iniziato a cantare a Messa, all’Oratory Church di Londra, la più importante chiesa cattolica della città. Lo facevo tre volte alla settimana, tanto che ancora adesso sono in grado di cantare un’intera Messa in latino. Non sono religioso nel senso più tradizionale del termine. Però ho una mia spiritualità e poi tutta la liturgia della Messa continua a produrre un effetto molto profondo su di me».
Tra le altre canzoni del tuo disco, c’è Talking about you, ispirata nella musica a Sarà perché ti amo dei Ricchi e Poveri. Quando hai ascoltato la canzone la prima volta?
«Tre anni fa, qui in Italia. Solo dopo ho scoperto che è una delle vostre canzoni più famose nel mondo. Quando ho deciso di incidere Talking about you, ho contattato gli autori, tra cui c’è anche Pupo, perché trovo disonesto nascondere le fonti della propria ispirazione».
Gesticoli molto con le mani. Anche questo l’hai preso dall’Italia?
«No, no (ride, ndr). Io sono libanese e anche noi facciamo così. Sono cresciuto in Inghilterra e non dimenticherò mai la prima volta in cui ho capito che la nostra famiglia non era normale per gli standard di quel Paese. Un mio amico una sera è venuto a casa mia, ma è rimasto molto poco. Il giorno dopo gli ho chiesto perché e lui mi ha detto: “Eravate sempre tutti arrabbiati”. Noi siamo abituati a parlare a voce alta e a gesticolare e si vede che per un piccolo inglese “bourgeois” (“borghese”, in francese, ndr) è stato uno shock».
La tua famiglia fuggì dal Libano quando avevi appena un anno. Che legami hai mantenuto con la tua terra?
«Siamo sempre stati molto legati alle nostre radici. Ho vissuto a Parigi e a Londra nelle comunità libanesi “trasplantate”... no, come si dice... trapiantate lì e anche adesso, a casa mia a Londra trovi il tappeto, i profumi, il desiderio di farti mangiare, tutti gli elementi della mia identità libanese».
Da emigrante, cosa pensi quando vedi le immagini dei barconi che solcano il Mediterraneo?
«Penso che non possiamo scegliere solo gli aspetti della globalizzazione che ci piacciono, quelli legati ai prodotti che arrivano da Paesi lontani, e rifiutare quelli più problematici come l’immigrazione. Se lo facciamo, siamo degli ipocriti. Ho molta ammirazione per i tanti italiani, gente semplice, che in questi anni hanno aiutato i migranti, senza ricevere nulla in cambio».
Qual è il tuo luogo preferito dell’Italia?
«Adoro la Toscana, specie tutta la zona attorno a Siena. Adoro Milano perché le cose più belle che ha sono nascoste, è una città che è metà villaggio e metà metropoli. Napoli è una vera città, con il sangue che pulsa, il mare, il vulcano, la musica dappertutto. C’è tanta bellezza mischiata a tanti problemi: ogni volta che vado lì per me è una grande fonte di ispirazione. Ma forse la zona che mi piace di più sono le Langhe, in Piemonte, le colline verdi e misteriose raccontate da Cesare Pavese nei suoi romanzi. Quei paesaggi mi danno molta consolazione».
Hai citato Cesare Pavese. Cos’altro ti piace della cultura italiana?
«Ho studiato tanto i film di Fellini, perché contengono poesia, intellettualismo, ma sempre con uno spirito giocoso. Era un genio dell’assurdo, che per me è molto importante. Non mi piace l’ordine. Mi piace l’anarchia funzionale».
Parli benissimo la nostra lingua. Come hai fatto?
«Non è vero. Potrei parlare molto meglio. (Mika fa una pausa e poi scandisce lentamente, ndr). Se potessi parlare meglio, direi che avrei voluto imparare a parlare prima…».
Bravo. Tanti italiani, anche laureati, farebbero fatica a costruire la frase che hai pronunciato…
«Sono molto dispiaciuto perché non riesco a leggere Dante in italiano. Morgan un anno fa mi ha regalato una copia della Divina Commedia, ma è ancora troppo difficile per me. Però non mi arrendo».
(Foto Ansa)
«Non mi va di essere, “how do you say?” (“come si dice?”, ndr) accomodante», ci spiega dopo. «Specie con i bambini: più di tutti hanno il diritto di essere trattati con onestà. Ho capito la prima volta di avere “l’X Factor” a 18 anni, durante un concerto a scuola. Tutti mi applaudivano, anche un ragazzo che mi aveva rovinato la vita per quattro anni. L’ho guardato negli occhi e ho pensato: “In quello sguardo di sorpresa c’è la mia libertà”». Come sa chi ha visto X Factor in Tv, Mika parla molto bene l’italiano. Spesso si interrompe e chiede all’interlocutore: “How do you say?”. Perché non sopporta l’approssimazione, come dimostra anche nel suo nuovo disco, No place in heaven, un caleidoscopio di suoni e di stili assemblati con grande cura.
Quale canzone ti piace di più?
«Forse Last party, perché racchiude tutta la musica che mi piace: il pop, l’elettronica e pure un omaggio alla musica di chiesa che tanto è stata importante per me».
Perché?
«Ho iniziato a cantare a Messa, all’Oratory Church di Londra, la più importante chiesa cattolica della città. Lo facevo tre volte alla settimana, tanto che ancora adesso sono in grado di cantare un’intera Messa in latino. Non sono religioso nel senso più tradizionale del termine. Però ho una mia spiritualità e poi tutta la liturgia della Messa continua a produrre un effetto molto profondo su di me».
Tra le altre canzoni del tuo disco, c’è Talking about you, ispirata nella musica a Sarà perché ti amo dei Ricchi e Poveri. Quando hai ascoltato la canzone la prima volta?
«Tre anni fa, qui in Italia. Solo dopo ho scoperto che è una delle vostre canzoni più famose nel mondo. Quando ho deciso di incidere Talking about you, ho contattato gli autori, tra cui c’è anche Pupo, perché trovo disonesto nascondere le fonti della propria ispirazione».
Gesticoli molto con le mani. Anche questo l’hai preso dall’Italia?
«No, no (ride, ndr). Io sono libanese e anche noi facciamo così. Sono cresciuto in Inghilterra e non dimenticherò mai la prima volta in cui ho capito che la nostra famiglia non era normale per gli standard di quel Paese. Un mio amico una sera è venuto a casa mia, ma è rimasto molto poco. Il giorno dopo gli ho chiesto perché e lui mi ha detto: “Eravate sempre tutti arrabbiati”. Noi siamo abituati a parlare a voce alta e a gesticolare e si vede che per un piccolo inglese “bourgeois” (“borghese”, in francese, ndr) è stato uno shock».
La tua famiglia fuggì dal Libano quando avevi appena un anno. Che legami hai mantenuto con la tua terra?
«Siamo sempre stati molto legati alle nostre radici. Ho vissuto a Parigi e a Londra nelle comunità libanesi “trasplantate”... no, come si dice... trapiantate lì e anche adesso, a casa mia a Londra trovi il tappeto, i profumi, il desiderio di farti mangiare, tutti gli elementi della mia identità libanese».
Da emigrante, cosa pensi quando vedi le immagini dei barconi che solcano il Mediterraneo?
«Penso che non possiamo scegliere solo gli aspetti della globalizzazione che ci piacciono, quelli legati ai prodotti che arrivano da Paesi lontani, e rifiutare quelli più problematici come l’immigrazione. Se lo facciamo, siamo degli ipocriti. Ho molta ammirazione per i tanti italiani, gente semplice, che in questi anni hanno aiutato i migranti, senza ricevere nulla in cambio».
Qual è il tuo luogo preferito dell’Italia?
«Adoro la Toscana, specie tutta la zona attorno a Siena. Adoro Milano perché le cose più belle che ha sono nascoste, è una città che è metà villaggio e metà metropoli. Napoli è una vera città, con il sangue che pulsa, il mare, il vulcano, la musica dappertutto. C’è tanta bellezza mischiata a tanti problemi: ogni volta che vado lì per me è una grande fonte di ispirazione. Ma forse la zona che mi piace di più sono le Langhe, in Piemonte, le colline verdi e misteriose raccontate da Cesare Pavese nei suoi romanzi. Quei paesaggi mi danno molta consolazione».
Hai citato Cesare Pavese. Cos’altro ti piace della cultura italiana?
«Ho studiato tanto i film di Fellini, perché contengono poesia, intellettualismo, ma sempre con uno spirito giocoso. Era un genio dell’assurdo, che per me è molto importante. Non mi piace l’ordine. Mi piace l’anarchia funzionale».
Parli benissimo la nostra lingua. Come hai fatto?
«Non è vero. Potrei parlare molto meglio. (Mika fa una pausa e poi scandisce lentamente, ndr). Se potessi parlare meglio, direi che avrei voluto imparare a parlare prima…».
Bravo. Tanti italiani, anche laureati, farebbero fatica a costruire la frase che hai pronunciato…
«Sono molto dispiaciuto perché non riesco a leggere Dante in italiano. Morgan un anno fa mi ha regalato una copia della Divina Commedia, ma è ancora troppo difficile per me. Però non mi arrendo».
(Foto Ansa)



