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Non lasciatevi ingannare. Dietro l’aria fragile e gli occhi da cerbiatta si cela un carattere di ferro. Natalie Portman (vero cognome Hershlag: il padre Avner, medico polacco ebreo, l’ha fatta nascere a Gerusalemme per poi naturalizzare la famiglia negli Usa) ha mostrato fin dall’infanzia di avere idee chiare e volontà tenace.
Vegetariana, accanita ambientalista, versatile per le lingue, capace di conciliare gli impegni di lavoro (nel 1994 il debutto accanto a Jean Reno nel thriller Léon di Luc Besson) e lo studio, tanto da laurearsi in Psicologia ad Harvard. Altrettanto tosta nel costruire una carriera alternando no clamorosi a titoli scelti con cura che le hanno dato il successo. Enorme la popolarità regalatale dalla seconda trilogia di Star Wars, in cui George Lucas le ha affidato il ruolo della regina Amidala. Nessuna sorpresa perciò quando ha vinto l’Oscar nel 2011, neppure trentenne, per la mefistofelica ballerina interpretata ne Il cigno nero di Darren Aronofsky.
Ora, dopo 38 film e un figlio, Aleph, nato dal matrimonio con Benjamin Millepied (coreografo francese conosciuto sul set), la bella Natalie affronta la prova più ardua: vestire i panni di una donna vera, Jacqueline Kennedy, icona del Novecento. Per Jackie, ora nelle sale in attesa della notte degli Oscar, la Portman ha avuto la terza nomination meritando applausi all’anteprima veneziana della Mostra, dove ha affiancato il bravo regista cileno Pablo Larraín.
Signora Portman, come si è trasformata in Jackie?
«La principale ispirazione mi è venuta dalla lunga intervista fattale da Arthur Schlesinger. Sentendo la registrazione sembra un conversare tra amici. Invece, lei l’aveva corretta... Attenta alla cura dell’immagine e dell’eredità del marito. Poi ho rivisto cento volte il tour della Casa Bianca girato per la Tv, che abbiamo ricostruito nel film. Ho studiato l’accento, l’andatura, le espressioni del viso».
Tecnica a parte, c’è pure una componente emotiva. Nessun timore?
«Scherza? Ero terrorizzata. Mi sembrava un ruolo pericolosissimo. Una di quelle scelte che ti portano dritto al fallimento. Poi ho parlato con Pablo e ho capito che non sarebbe stata la solita biografia».
Una sfida, comunque, da far tremare i polsi. Essere Jacqueline nel suo momento più difficile: i quattro giorni di quel novembre 1963 intercorsi tra l’attentato e il funerale. Jackie è un inedito punto di vista sull’assassinio di JFK, tante volte raccontato dal cinema. La Portman (minuta, somigliante all’originale nella naturale eleganza) non interpreta solo l’icona del jet-set, del gossip, della moda, ma incarna una donna vera che, nel momento di maggior fragilità, dimostra spessore e umanità.
Il doppio binario dei sentimenti personali e dello scontro mediatico è il filo conduttore della pellicola, che comincia con l’intervista concessa a un giornalista mai troppo tenero con lei, dopo aver lasciato la Casa Bianca. È il racconto dal punto di vista della moglie, della madre, della compagna di battaglie politiche, della vedova che ha dovuto lottare perché al marito, dopo la brutale uccisione, fosse reso l’omaggio che le pareva doveroso. Attorno a lei, si remava contro. Meglio una cerimonia intima, ragioni di sicurezza... Invece, con abilità e fermezza, Jackie ottiene il corteo a piedi dei capi di Stato, la sepoltura nel cimitero di Arlington. Eppure vediamo Jackie, con il tailleur rosa ancora macchiato dal sangue del marito, piangere da sola alla Casa Bianca chiedendosi come dire ai bimbi ancora piccoli che il loro papà è morto... Morale pubblica e privata s’intrecciano crudelmente.
Raffinata, la Portman, mai sopra le righe: donna, moglie, madre, vedova, mito, enigma. «Mai conosceremo il suo profumo. Né la luce del suo sguardo quando si era al suo cospetto», spiega Pablo Larraín. «L’unica cosa che ho potuto fare è mettere assieme un film fatto di frammenti: luoghi, immagini, ricordi».
Natalie, lei che cosa ha scoperto di Jackie girando il film?
«L’umorismo, con cui sapeva essere anche dura. Poi la sua crisi di fede nel momento del dolore più crudo. Un modello, non solo di stile».
A cosa si riferisce?
«Dopo di lei, la First Lady cessa di essere coreografia. Si è ritagliata un ruolo attivo ristrutturando la Casa Bianca con l’idea di celebrare la storia americana attraverso oggetti simbolo. Conoscendo Versailles, sapeva che ci sono luoghi che esprimono l’identità di una nazione».



