Non è un incidente isolato, e purtroppo difficilmente sarà l’ultimo. Il mercato globale della fecondazione artificiale continua a muoversi secondo la logica del profitto, mettendo in commercio gameti come fossero prodotti qualsiasi e moltiplicando i rischi legati agli inevitabili “incidenti di percorso”, come vengono chiamati da un lessico burocratico agghiacciante e volutamente spersonalizzante. Anche i controlli più accurati, infatti, possono non bastare. E quando qualcosa sfugge, il prezzo lo pagano i più vulnerabili: i figli nati da queste pratiche.

L’ultimo caso, terribile, portato alla luce da un’inchiesta di 14 emittenti pubbliche europee coordinate dalla EBU (European Broadcasting Union), chiama in causa la European Sperm Bank, tra le più note e utilizzate nel Vecchio Continente.

Per ben 17 anni la banca danese ha venduto il seme di un giovane studente risultato portatore di una mutazione del gene TP53, fondamentale nella prevenzione dei tumori. Un’anomalia che nei test genetici eseguiti sull’uomo non era emersa, ma che interessava almeno il 20% dei campioni da lui forniti e poi distribuiti in mezza Europa: Regno Unito, Germania, Belgio, Spagna, Polonia, Islanda e molti Paesi balcanici.

Dal suo seme sono nati 197 bambini. Ad oggi ne sono stati rintracciati 67 e, tra questi, 23 risultano portatori della mutazione, con diversi casi di tumori insorti in età infantile e già alcuni decessi. Una tragedia che si aggiunge all’amara consapevolezza di coppie che, pagando cifre importanti e fidandosi di cliniche specializzate, pensavano di accedere a un percorso «sicuro», selezionato, persino «personalizzato» grazie ai cataloghi dei cosiddetti “donatori”.

Il caso riapre un problema già noto e discusso in Danimarca: i rischi derivanti dalla “paternità seriale” di un singolo venditore di seme. Un unico fornitore può generare decine, centinaia di figli genetici, ignari l’uno dell’altro, con il pericolo reale di unioni future tra fratelli e sorelle inconsapevoli. A questo si aggiunge la possibilità, ora drammaticamente confermata, che una mutazione sfuggita agli screening si diffonda su larga scala.

È inevitabile, a questo punto, interrogarsi non solo sulle falle normative di un mercato ricchissimo e poco incline a vincoli, ma anche sul fondamento etico dell’intero sistema. L’idea che la vita possa essere acquistata, selezionata, regolata dal mercato come un qualsiasi bene di consumo o prodotto rivela oggi, con forza ancora maggiore, la sua fragilità e i suoi rischi.

L’Italia, pur non coinvolta direttamente da questa banca danese, non può sentirsi al riparo. Dal 2014, dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha modificato la legge 40 che la vietava (giustamente), la fecondazione eterologa è praticata anche nel nostro Paese. Oggi rappresenta il 22% delle nascite da procreazione medicalmente assistita, cioè 3.805 bambini. Numeri che impongono una riflessione seria, laica ma non neutrale: quella sulla tutela dei figli e sulla responsabilità morale degli adulti e delle istituzioni.

Il caso danese non è soltanto l’ennesimo scandalo. È un campanello d’allarme. E ci ricorda, come sostiene il magistero della Chiesa, che la vita non può essere ridotta a prodotto commerciale e che non bastano protocolli, cataloghi o certificati di qualità: servono prudenza, regole e limiti chiari e una consapevolezza profonda del valore umano che precede ogni tecnica.

Forse è giunto il momento, anche in Italia, di riaprire il dossier sull’eterologa con il coraggio di guardare oltre l’efficienza e il desiderio degli adulti, mettendo al centro, sul serio e prima di tutto, il bene del bambino.