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Christopher Futcher
Ogni Natale torna la stessa domanda: cosa scegliere per i nostri figli? Dietro la corsa al regalo si cela qualcosa di più profondo: il modo in cui le famiglie vivono la relazione con i bambini, il tempo condiviso e la libertà di immaginare. «Il gioco è divertimento e benessere: se non si fa in famiglia, dove si deve fare?», afferma Francesca Antonacci, docente di Pedagogia del gioco all’Università di Milano-Bicocca. «Non deve servire a educare alle competenze o alle emozioni. Il gioco deve far divertire, unire le persone, creare legami, sostenere la solidarietà e la collaborazione. Giocando si litiga, ma è anche questo il bello: si impara a superare il conflitto, un esercizio che prepara alla vita». Antonacci ricorda che il gioco è uno spazio relazionale: «Un gioco da tavolo, a differenza di uno solitario, è un motore di relazione: insegna a rispettare l’avversario, a vivere una competizione sana e a trovare equilibrio tra i partecipanti».
L’idea di un giocattolo “intelligente” non la convince: «Se non diverte, diventa un altro compito della società delle performance. I bambini non hanno bisogno di giochi che richiedano competenze, ma di libertà. Bisogna ascoltare le loro inclinazioni, non imporre modelli educativi».
Dopo anni di dominio digitale, i videogames restano centrali, ma qualcosa cambia. «Non vanno demonizzati. Molti favoriscono legami reali: ragazzi che giocano online poi si incontrano dal vivo e diventano amici. Gli adulti però devono sceglierli cum grano salis, rispettando le fasce d’età. Spesso si regalano titoli inadatti». I videogiochi, precisa la docente, «possono avere un forte valore formativo: richiedono scelte etiche, strategie, collaborazione. Non sono meri passatempi». Un valore simile lo riconosce ai giochi di ruolo, fondamentali nell’adolescenza. «Permettono di usare l’immaginazione, di collaborare e vivere il gruppo. Non c’è competizione ma relazione. È la stessa logica che dovremmo recuperare nello sport, quando smette di essere gioco e diventa solo performance. La cultura agonistica esclude i meno bravi e incrina le amicizie. Lo sport dovrebbe restare un linguaggio di condivisione».
Anche i giochi da tavolo «sono preziosi fin dalla primaria. Dovremmo superare i soliti classici e scoprire i tanti titoli nuovi, più creativi e inclusivi: ce ne sono migliaia di nuovi ogni anno. Meglio rivolgersi a negozi specializzati, dove si è consigliati da chi conosce il prodotto. Bene anche i libri game, se adeguati all’età».
Critico il giudizio sui set di costruzioni troppo vincolanti: «Alcune confezioni, con eccesso di istruzioni, limitano la fantasia. Sono programmate per costruire qualcosa di già deciso. Meglio quelle libere, in legno o materiali colorati, che stimolano invenzione e creatività». E i giochi di genere? «Non hanno più senso. Bambine e bambini devono scegliere ciò che li attrae. Viviamo in una società dove ci sono madri neurochirurgo e padri che accudiscono i figli: il gioco deve superare vecchi stereotipi». C’è infine il mondo dei giocatori adulti: «Collezionano miniature, giocano a scacchi, a carte o ai videogames. È un segno positivo: giocare è un modo per restare vivi, allenare l’intelligenza e la socialità». Il messaggio finale è limpido: il gioco non è consumo ma racconto condiviso. «Una volta si giocava nella comunità, oggi si consuma nei centri commerciali. Dovremmo tornare a un gioco che sia più narrazione che spesa, più incontro che prestazione. Perché» – conclude Antonacci – «è il modo più semplice e profondo per fare esperienza di sé e per imparare a stare con gli altri».









