Lc 19,41-44 - Giovedì della XXXIII Settimana del Tempo ordinario - Anno Dispari - (20 novembre 2025)

Gesù piange su Gerusalemme. È la rivelazione più disarmante del cuore di Dio: un Dio che non rimane neutrale davanti al rifiuto dell’uomo, ma lo sente come una ferita, come qualcosa che lo riguarda. Gerusalemme è la città che avrebbe potuto riconoscere la visita di Dio, e invece rimane cieca.

Questa cecità è il vero dramma del Vangelo: non l’assenza di Dio, ma l’incapacità dell’uomo di accorgersi della sua presenza. Gesù non piange perché la città è peccatrice, ma perché non sa di esserlo. Non piange per il male, ma per l’indifferenza. È un pianto che ci riguarda profondamente: quante volte anche noi siamo così presi dalle nostre paure, dalle nostre abitudini, dalle nostre pretese, da non riconoscere che Dio sta passando proprio in quel momento, proprio in quella situazione che non avremmo mai scelto. Il vero peccato non è cadere, ma non accorgersi che siamo visitati da qualcuno che ci ama.

L’immagine dell’assedio che segue non è una minaccia, è la conseguenza naturale di un cuore che si chiude. Quando non lasciamo entrare Dio, inevitabilmente lasciamo entrare qualcos’altro: ansie che ci schiacciano, solitudini che ci consumano, pretese che ci imprigionano. È come se Gesù dicesse: “Ti sto mostrando dove porta una vita senza di me”.

Le mura che crollano sono spesso le nostre difese, quelle che abbiamo costruito per non farci toccare da nessuno, nemmeno da Lui. Eppure il centro del brano non è la distruzione, ma il pianto. Il pianto di Cristo è la dichiarazione d’amore più pura del Vangelo: Dio si commuove per noi, perché vede ciò che potremmo essere e che spesso non scegliamo di diventare.

Forse la conversione, alla fine, è semplicemente lasciarci commuovere da questo pianto. Accorgerci che la visita di Dio non è un lusso spirituale, ma l’unica possibilità per trovare pace. Perché ogni volta che riconosciamo la sua presenza, la vita smette di essere un assedio e torna a essere casa.

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