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La parabola che Gesù racconta nel Vangelo di oggi mette in luce quel grande male che prende il nome di superbia spirituale. È quella malattia che ci fa sentire migliori degli altri semplicemente perché nella vita ci è andata sempre bene e magari per una serie fortunata di imprevisti non abbiamo fatto grandi errori. Ci sembra di essere bravi e di poterci permettere il disprezzo degli altri: “Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano”. A una figura così narcisista si oppone quella di un povero peccatore che prega semplicemente in questo modo: “Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Dice Gesù che solo la preghiera di quest’ultimo è ascoltata, mentre la prima è solo il rumore della vanagloria. Questa parabola ci invita a guardarci dentro e a domandarci se siamo umili o superbi, se siamo coscienti della nostra fragilità o se abbiamo chiara solo quella degli altri, se sentiamo di avere bisogno di essere salvati o se pretendiamo di avere meriti davanti a Dio. È importate collocarsi dalla parte giusta, diversamente rischiamo di arrivare alla fine della vita per sentirci dire: “non ti conosco, non ti ho mai visto. Tu sei stato in ginocchio solo davanti al tuo tronfio io”.
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