Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è un privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono ». Come osservava già l’autore di questa frase nel romanzo La chiave a stella (1987), cioè Primo Levi, famoso per l’opera Se questo è un uomo sui lager nazisti, sono pochi quelli che possono sottoscrivere questa affermazione. Sappiamo, infatti, cosa sia la vergogna dello sfruttamento, della miseria salariale, dei lavori usuranti, della disoccupazione.
È per questo che sono stati uniti il Giubileo dei lavoratori (dal 1° al 4 maggio) e quello degli imprenditori (dal 4 al 5), alla ricerca di un incontro nella giustizia. Nell’immagine biblica della persona umana, com’è noto, c’è il «lavorare e custodire la terra» (Genesi 2,15). Tuttavia, questa avventura esaltante ben presto, a causa della libertà umana che fa scelte di peccato, si trasforma in un’attività sfiancante e devastante: «Con dolore trarrai il cibo dal suolo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te… Con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (Genesi 3,17-19).
L’homo faber può realizzarsi nella propria creatività ma può anche cadere in lavori alienanti, soprattutto quando si è oppressi come Israele sotto il faraone, oppure con l’infamia attuale dei bambini schiavi nelle miniere in alcuni paesi. C’è pure il lavoro fanatico, votato all’accumulo di capitali, come accade al ricco stolto della nota parabola di Gesù (Luca 12,13-21), con l’esito di avere spesso un erede dissipatore che disperde quei possessi conquistati con tanta fatica, come ripete spesso il sapiente biblico Qohelet (si leggano questi passi vivaci: 1,3; 2,11.18-19; 3,9; 4,4-6).
Il lavoro può avere come antitesi l’ozio che diventa un alibi per protestare sulla mancanza di impiego, soprattutto quando si delegano agli stranieri le occupazioni sgradite. Come non ricordare l’autoironia partenopea di Eduardo De Filippo in Natale in casa Cupiello (1931): «Cuncè, che brutto suonno che mi so’ fatto stanotte. Mi sono sognato che lavoravo lavoravo »? Gesù non si vergogna di essere additato a Nazaret come «il figlio del falegname» (Matteo 13,55), anzi lui stesso come «falegname» (Marco 6,3). Il termine greco usato, tékton, può essere reso come “carpentiere” e “operaio” in senso generico.
Non per nulla nelle sue parabole egli introduce contadini, pescatori, mercanti, casalinghe, pastori, lavoratori giornalieri e persino portieri e gestori finanziari (Matteo 25,14-30). Ci invita a chiedere a Dio «il pane quotidiano» che si ottiene lavorando la terra, come ricorda il Salmista: «Tu, Signore, fai crescere l’erba per il bestiame e le piante che l’uomo coltiva per trarre cibo dalla terra, vino che allieta il cuore dell’uomo, olio che fa brillare il suo volto, e pane che sostiene il suo cuore… L’uomo esce al sorgere del sole per il suo lavoro, per la sua fatica fino a sera» (104,14-15.23). Concludiamo con la voce di san Paolo: «Noi abbiamo lavorato giorno e notte per non essere di peso a nessuno… Occupatevi delle vostre cose e lavorate con le vostre mani… E se uno non vuole lavorare, neppure mangi» (1Tessalonicesi 2,9; 4,11; 2Tessalonicesi 3,10).


