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Questo testo ci suggerisce, comunque, il termine greco neotestamentario da proporre, gynê, «donna» (la pronuncia è ghynè), un vocabolo usato ben 215 volte, per cui possiamo riconoscere che la Scrittura Sacra cristiana sia molto più femminile di quanto spesso si creda. A segnare questa svolta – rispetto a una certa misoginia che affiora talora nell’Antico Testamento e che lambisce anche alcune pagine paoline frutto dell’incarnazione nella cultura e nella società dell’epoca – è certamente Gesù.
La sua vita è, infatti, accompagnata da tante donne, a partire naturalmente dalla madre, Maria. Agli stessi inizi della sua esistenza terrena c’è una vecchietta deliziosa di 84 anni, Anna, che lo esalta, mentre quando sarà adulto, cammineranno con lui e lo accudiranno «Maria chiamata Maddalena, Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che servivano [lui e i Dodici] con i loro beni» (Luca 8,2-3). A tavola sarà invitato e festeggiato dalla suocera di Pietro e dalle amiche Marta e Maria, sorelle di Lazzaro.
Egli non esiterà ad accogliere e a perdonare donne dalla storia tormentata come la prostituta che gli si accosta piangendo nella casa di Simone fariseo (Luca 7, 36-50) o l’adultera sulla spianata del Tempio (Giovanni 8,1- 11). Anche nelle ultime ore della sua vita, quando i discepoli fuggiranno, saranno alcune donne, con Maria sua madre, ad assistere alla sua morte e a prestargli le iniziali onoranze funebri. Saranno ancora loro ad essere le prime destinatarie dell’annuncio della sua risurrezione, incontrandolo e divenendo testimoni e missionarie della sua nuova presenza gloriosa.
Nella Chiesa delle origini c’è una piccola folla femminile: pensiamo alla dolce e generosa Tabità (Atti 9,36- 43), a Maria, madre di Giovanni Marco (forse l’evangelista Marco), e alla sua domestica Rode che ospitano Pietro liberato dal carcere (12,12-15), a Lidia, la commerciante di porpora che assiste Paolo a Filippi (16,14), all’ateniese Damaris che si converte dopo il discorso dell’apostolo all’Areopago (17,34), a Priscilla che con suo marito Aquila lo accoglie nella loro casa a Corinto (18,2-3), alle quattro figlie del diacono Filippo di Gerusalemme (21,8-9).
Come non ricordare le donne romane salutate da Paolo nella Lettera indirizzata a quella comunità (c. 16), da Febe a Maria, da Giunia a Trifena e Trifosa, da Perside a Giulia? E come non evocare il rilievo delle vedove nella Chiesa delle origini (1Timoteo 5)? Potremmo, perciò, concludere proprio con le parole emblematiche di Paolo ai Galati: «Non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (3,28).



