Per elaborare le varie puntate di questa rubrica, come ho già avuto occasione di dire, sfoglio l’imponente archivio delle domande che mi sono state rivolte da lettori, telespettatori, ascoltatori di registrazioni, da persone presenti a conferenze durante i vari decenni del mio impegno pubblico. Una delle sezioni maggiori è quella che riguarda il tema del male e della sua compatibilità con Dio e soprattutto col Dio d’amore cristiano.
Chi ci segue con continuità ricorderà che proprio la scorsa settimana abbiamo affrontato il male che nasce e prolifera dalla libertà umana, questa dote che il Creatore ci ha assegnato e che ci rende diversi da altre creature vincolate a leggi fisiche fisse o solo a istinti. Ebbene, una parte consistente del male fiorisce proprio dalla libertà umana che Dio prende sul serio. Egli non ci ha creati come una stella, legata a meccaniche celesti rigide, ma come interlocutori liberi. Il poeta tedesco Friedrich Hölderlin (1770-1843) comparava la creazione dell’uomo da parte di Dio al ritirarsi dell’oceano per far emergere la terra: Dio «si ritira» per rispetto alla grandezza dell’uomo, che non è suo schiavo né suo oggetto, ma persona capace di adesione e di rifiuto e quindi di produrre il male e la sofferenza del prossimo.
C’è, però, un male più oscuro che pervade la natura e l’umanità e che non è frutto delle nostre scelte perverse. Pensiamo ai cataclismi, al dolore innocente, alle sciagure che possono, sì, essere ricondotte al limite della realtà creata che non è perfetta ed eterna, ma la cui distribuzione e attuazione sconcerta e scandalizza. Per questo la teologia antica era soprattutto «teodicea», cioè difesa d’ufficio di Dio, come fanno gli amici di Giobbe il quale, invece, protesta direttamente col Signore, come per altro fanno alcuni Salmisti col loro interrogativo lacerante: «Perché? Fino a quando?» (si legga il Salmo 13).
Si ricorre, così, spesso alla classificazione del male e del dolore come «mistero». Sono, però, necessarie due precisazioni. Da un lato, questo termine significa oscurità, enigma, incomprensibilità. È la reazione appunto di Giobbe che sente il peso di questa realtà che acceca e che mette in crisi il concetto di un Dio giusto e non indifferente alla storia e all’umanità. Già il filosofo greco Epicuro dichiarava: «Se Dio vuole togliere il male e non può, è debole; se può e non vuole, è ostile nei nostri confronti; se non vuole e non può, è ostile e debole; se vuole e può, perché permette il male e non lo elimina?».
D’altro lato, però, c’è un altro valore della parola «mistero» ed è quello positivo di progetto superiore, di disegno trascendente che non annulla ma supera la nostra razionalità. È ciò che vuole dimostrare il libro di Giobbe nell’intervento finale di Dio (cc. 38-42). Ma per il cristiano c’è un dato fondamentale. Mediante l’incarnazione, Dio attraverso suo Figlio, uomo come noi, è entrato nel male, nel dolore, nella morte assumendoli e vivendoli in sé stesso.
Quel passaggio ha lasciato un seme di luce, di vita, di speranza, di salvezza nel grembo del nostro limite e del male. Esso sta lentamente crescendo verso la meta della redenzione piena cantata dall’Apocalisse. L’amore di Dio non ci protegge, quindi, da ogni sofferenza, ci protegge in ogni sofferenza, nell’attesa della definitiva e finale liberazione dal male. Il poeta francese Paul Claudel scriveva: «Dio in Cristo non è venuto a spiegare la sofferenza, ma è venuto a riempirla della sua presenza».


