Per riferirsi a Dio, la Bibbia usa termini generici e anche uno specifico, che per rispetto non viene pronunciato. Non indica però un Essere impassibile, ma un Io che opera e salva
La solennità cristiana della Trinità ci spinge a introdurre nel nostro elenco delle parole bibliche fondamentali il Nome per eccellenza, quello di Dio. È da ricordare che nel mondo semitico il nome è la realtà stessa di una persona e, quindi, nel caso della divinità permane una certa riserva, ben espressa dal secondo comandamento: «Non nominare il nome del Signore, tuo Dio, invano, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano» (Esodo 20,7). Israele ha ovviato a questo paradosso attraverso due vie.
Da un lato, ha assunti vari nomi più generici e persino comuni all’antico Vicino Oriente. È il caso di ’Elohîm, «Dio», che ricorre 2.600 volte, dal significato incerto («il Forte» o «il Primo»). Oppure l’afne ’El, usato 238 volte da solo o connesso con altri termini (ad esempio, ’El-‘eljôn, «Dio altissimo»). O anche Shaddaj, 48 volte, «il Potente», forse con un rimando simbolico alla montagna sacra, segno di trascendenza e superiorità. Infine c’è ’Adonaj, «Signore», presente 439 volte, delle quali ben 222 nel solo libro del profeta Ezechiele.
D’altro lato, però, Israele ha un nome divino specifico che vorrebbe riassumere in sé la vera identità del Dio biblico. Esso è racchiuso in quattro consonanti ebraiche, JHWH, che la tradizione giudaica non pronuncia: solo il sommo sacerdote una volta all’anno, nella solennità del Kippûr, ossia dell’Espiazione, poteva proclamarlo all’interno del Santo dei Santi, la parte remota e celata a occhio e orecchio umano del tempio di Gerusalemme. Questa, però, è la prima parola per presenze in tutto l’Antico Testamento (6.828 volte). Eppure gli Ebrei, quando vi si imbattono nelle righe del testo sacro, leggono il citato ’Adonaj, «Signore».
La nostra lettura Jahweh è solo ipotetica, mentre è erronea Jehowah, Geova, perché legge le vocali del nome ’Adonaj che erano state aggiunte alle quattro impronunciabili consonanti JHWH dai maestri rabbinici per ricordare la sostituzione a cui sopra si accennava. Ma che signicato ha quel nome che si deve tacere? Per scoprirlo dobbiamo risalire a un racconto celebre del libro dell’Esodo, quando Mosè fuggiasco dall’Egitto riceve al Sinai l’investitura per la missione della liberazione d’Israele dall’oppressione faraonica (Esodo 3).
Da un roveto ardente esce una voce misteriosa: «Io sono colui che sono. Così dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi» (3,14). In ebraico la frase suona così: ’ehjeh ’asher ’ehjeh, e si basa sul verbo ebraico comune hajah, «essere», presente ben 3.540 volte nella Bibbia. La decifrazione di quella frase enigmatica ha registrato molte interpretazioni. Dio è l’Esistente per eccellenza (più che l’Essere in senso filosofico occidentale), è il Vivente, l’Immortale, l’Io supremo, perfetto ed eterno.
Certo è che il Dio biblico si presenta come una persona: non è un oscuro fato o «un arruffio di fili di cui non si afferra il bandolo», come è definito il dio Enlil dei Sumeri. Tant’è vero che subito dopo egli aggiunge: «Io-Sono mi ha mandato a voi… Il Signore, Dio dei vostro padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi per liberarvi» (3,14-15). Non è un Essere misterioso, simile a un imperatore impassibile e indecifrabile. È un fiIo che opera e salva, e per questo il Cristo del Vangelo di Giovanni userà spesso questo nome impronunciabile, «Io-Sono» (8,24.28.58; 13,19; 18,5-8) per rivelare la sua identità profonda e salvifica.


