Il racconto evangelico che ascoltiamo nella VIII Domenica dopo la Pentecoste è tratto da un gruppo di quattro che l’evangelista Matteo ambienta all’interno del Tempio di Gerusalemme, nei giorni immediatamente precedenti la Passione di Gesù. Si tratta di alcune dispute nelle quali, principalmente i farisei, cercano di coglierlo in fallo in qualche sua aff ermazione. La prima di queste discussioni riguarda la politica tributaria dei romani ed è appunto quella proposta dalla liturgia. Matteo non vuole che vi siano dubbi riguardo le reali intenzioni degli interlocutori di Gesù: tentano, letteralmente, di «prenderlo al laccio» attraverso qualche sua opinione discutibile. L’obiettivo è di arrivare a giustifi care la sua eliminazione come atto dovuto.

Prima di tendere la trappola eff ettiva, farisei ed erodiani si producono in una ipocrita e stucchevole “captatio benevolentiae”, che assume però contorni ironici per il suo contenuto in eff etti veritiero. Gesù è davvero colui che parla di Dio secondo verità e senza alcuna soggezione di alcuno. Quest’ultima sottolineatura riguardo l’autonomia di giudizio di Gesù, sulla bocca dei farisei e degli erodiani suona come un invito implicito ad esprimersi contro il potere romano.

Va detto che la trappola tesa è di tutto rispetto e Gesù si trova in una situazione decisamente scomoda. Se si dovesse esporre in senso ostile al tributo romano potrebbero denunciarlo al governatore come ribelle, poiché il rifi uto di pagare la tassa era considerato un segnale per dare il via all’insurrezione dai tempi della rivolta di Giuda il Galileo del 6 d.C. D’altra parte, se Gesù aff ermasse l’obbligo del pagamento risulterebbe inviso alla gran parte della popolazione.

Egli, però, si dimostra pienamente padrone della situazione. Fiuta il tranello immediatamente e, confermando ciò che avevano aff ermato di Lui, non teme di accusarli apertamente di ipocrisia, facendo notare la loro malignità nel volerlo mettere alla prova. Il modo in cui sfugge al laccio che gli hanno teso è magistrale.

Chiede agli avversari una moneta di quelle che si usavano per pagare il tributo ed essi gliela off rono prontamente. Il gesto sembra insignifi cante, eppure, con ciò stanno già dimostrando di aver accettato da tempo il potere romano e dunque di aver già risposto al quesito posto a Gesù.

L’ordine di quest’ultimo di «dare a Cesare quel che è di Cesare» non è altro che la sollecitazione ai suoi avversari perché traggano le conseguenze di comportamenti che già tengono. La vera sorpresa è l’intimazione di «dare a Dio quel che è di Dio». Considerato che nella tradizione biblica tutto è di Dio, diventa un comando di diffi cile applicazione.

Ma della insufficiente giustizia dei farisei Matteo ha dato conto fi n dall’inizio del suo Vangelo («Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli» 5,20) e queste ultime parole del Maestro vanno intese come un nuovo rimprovero a coloro che ancora non hanno compreso ciò di cui davvero occorre occuparsi.