Con la fede oltre la tempesta

 

[Gesù] Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Marco 4,39-40

 

La pericope evangelica di oggi segue quelle delle ultime domeniche: Marco descrive «in quello stesso giorno, venuta la sera», il desiderio di Gesù di «passare all’altra riva» insieme ai suoi. C’è un simbolismo pasquale fortissimo in questo invito! Siamo chiamati, dalla voce amante del Signore, a incamminarci per “passare”, a trovare spazi per stare con Lui, lontano dalla frenesia della folla e dall’ardore di fare, che può essere buono in sé ma talvolta ci allontana dall’unica cosa che conta: l’intimità con Dio. Gli apostoli obbediscono: «Congedata la folla, prendono Gesù così come è nella barca». Pensiamo forse di sapere come debba manifestarsi a noi il Signore per essere credibile; si tratta invece di accoglierlo “così come è”, nelle concrete richieste che Egli ci fa attraverso la nostra vita, gli incontri, i doveri, le gioie, la quotidianità. L’importante è “prenderlo con noi”!

Non vuol dire certo essere esenti dalle fatiche della vita: rimaniamo esposti al dolore, alla sofferenza, alla morte. La sua amicizia ci dice però che tutto questo non ha l'ultima parola, perché la Parola viva ed eterna, che non teme la morte e l’ha già vinta, è Lui, il Cristo; Egli è “passato all’altra riva” una volta per tutte, “primizia” per ciascuno di noi.

La liturgia di oggi ci presenta la realtà della tempesta improvvisa e spaventosa che può abbattersi su ciascuno, anche se è amico di Dio, e ce ne spiega il simbolismo teologico, che ha a che fare con la Pasqua e con la salvezza: san Paolo invita a riconoscere in Gesù l’adam perfetto, vero Dio, che è risorto dai morti e ci ha redenti nel suo sangue; «se anche abbiamo conosciuto Cristo in maniera umana, ora non lo conosciamo più così: le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove» (II lettura, 2Corinzi 5). Il Salmo 106 (Responsorio) loda Dio per le sue «grandi opere»; nella tempesta, scatenata dal Signore stesso quasi come prova per i credenti, questi gridano a Dio ed Egli «li fa uscire»: è l’esperienza dell’Esodo, profezia della Pasqua del Cristo. Giobbe, protagonista della I lettura, è il prototipo del credente, dell’uomo buono e integro che ingiustamente subisce ogni sorta di sventura per il desiderio di male nutrito contro di lui dal satan invidioso e malvagio; a Giobbe si rivolge Dio stesso, «in mezzo all’uragano», dichiarandosi padrone dei flutti e del mare, capace di «fissare un limite» contro «l’orgoglio delle onde»! La Scrittura risponde alla domanda che, nel Vangelo, si fanno gli apostoli, «presi da grande timore»: «Chi è costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

Nel mezzo della prova, quando tutto sembra perduto e che Dio ci abbia abbandonati, sgorga la preghiera che vuole «svegliarlo» (il verbo è quello della Risurrezione): «Signore, non ti importa che moriamo?». Ma Gesù è il Vivente, è risorto, non siamo noi a svegliarlo: il suo apparente assopirsi non è assenza, vuole invece confermare la nostra fede. È Gesù che ci ama “come siamo”, nonostante la nostra incredulità! Placa il mare e poi pone una domanda che ci interpella: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Nelle tempeste della vita, nel tempo che ci è dato di vivere, prendiamo con fede Gesù con noi? Sappiamo dare testimonianza della sua vittoria sulla morte? Ci comportiamo come “figli della luce” o come “figli del mondo”?