Tra vuoto e pienezza
[...] nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali;
ma ora in questo modo lui è consolato,
tu invece sei in mezzo ai tormenti.
Luca 16,25
Nel Vangelo secondo Luca, Gesù ci propone un’altra parabola: quella del ricco che banchettava ogni giorno senza pensieri e del povero Lazzaro, giacente davanti alla sua porta, affamato e coperto di piaghe. Dopo la morte, le sorti si rovesciano: il ricco sperimenta la condanna, mentre Lazzaro trova finalmente consolazione nel grembo di Abramo. Del ricco si dice solo che viveva nel lusso, mangiava e beveva in abbondanza, ma non gli viene dato un nome. Il povero, invece, si chiama Lazzaro, che significa “Dio aiuta”. Questo contrasto non è casuale: il ricco, immerso nei piaceri della vita, resta anonimo, quasi cancellato dalla storia, mentre Lazzaro, pur nella sua miseria, è riconosciuto e custodito da Dio. La parabola ci mostra il vuoto interiore del ricco. La sua vita, centrata esclusivamente sul piacere e sull’apparenza, è come una bulimia: un’abbondanza che nasconde un’anima affamata di senso e di relazioni. Mangiare e bere senza limiti non colma la solitudine; anzi, rivela un cuore incapace di uscire da sé per vedere l’altro.
Lazzaro invece non ha neppure una sepoltura: è l’uomo schiacciato dal peso della sua condizione, simbolo di tutta quell’umanità dimenticata che ancora oggi muore senza un funerale, senza un luogo, senza uno sguardo di pietà. È l’immagine di chi non riesce ad alzarsi da solo, di chi porta un fardello troppo grande.
Questa pagina non va letta secondo la logica del contrappasso, come se chi gode in questa vita fosse destinato a soffrire nell’altra e viceversa. Gesù mette solo in guardia da un atteggiamento preciso: quello del ricco che, pur avendo ogni giorno davanti agli occhi il povero Lazzaro, non si accorge di lui, non lo riconosce, non lo soccorre. Il peccato non è la ricchezza in sé, ma l’indifferenza, l’incapacità di vedere le necessità dell’altro. È qui che la parabola ci provoca: non tanto su ciò che accadrà dopo la morte, ma se sappiamo aprire gli occhi, condividere e farci prossimi. Solo dopo la morte, nell’aldilà, il ricco si accorge di Lazzaro e invoca un sollievo: chiede ad Abramo di mandarlo per bagnargli la lingua con un dito d’acqua. Ma ormai è troppo tardi: l’abisso tra loro non è creato da Dio, ma dalle scelte del ricco, dalla sua indifferenza.
Interessante notare come la Bibbia assegni un nome al povero e non al ricco: Dio non si dimentica mai di chi soffre, lo chiama per nome, lo riconosce, lo custodisce. L’anonimato del ricco diventa simbolo della sua solitudine spirituale e del vuoto interiore. Anche il piacere più abbondante, senza amore per gli altri, non salva né consola. Gesù ci invita così a guardare oltre il piacere immediato e la vita terrena come fine a sé stessa. Ogni giorno davanti a noi c’è qualcuno che ha bisogno di un gesto, di uno sguardo, di una parola: il povero, il malato, chi è solo, chi soffre. Riusciamo a vederlo e ad aprire cuore e mani prima che sia troppo tardi? Ogni nostra scelta, ogni atto di indifferenza o di amore, costruisce ponti o abissi che possono durare anche oltre questa vita. In fondo, questa parabola ci ricorda che la vera ricchezza non sta nel lusso o nel piacere, ma nella capacità di accorgersi degli altri, di farsi prossimi al povero, al bisognoso, all’invisibile. Come riflette Dostoevskij nelle sue opere, la grandezza dell’uomo si misura nel suo rapporto con il dolore altrui: è in quell’attenzione che si misura la nostra vita e la nostra eternità.


