Specchi di vanità e giustizia
Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri Luca 18,9
Gesù racconta un’altra parabola a proposito della preghiera: dopo quella della vedova insistente presenta due uomini che pregano, ma con atteggiamenti diversi. Gesù dice che la preghiera di uno non serve a niente, mentre la preghiera dell’altro gli cambia la vita. Il fariseo e il pubblicano appartengono allo stesso popolo, salgono allo stesso tempio, pregano lo stesso Dio. Eppure vivono la religione in due modi opposti: il fariseo la vive come legge, il pubblicano come grazia.
Il fariseo non è un ipocrita: osserva i comandamenti, digiuna più del necessario, paga le decime persino oltre il prescritto. Ma proprio qui sta l’inganno: la sua religione funziona anche senza Dio. La legge prende il posto di Dio, e la sua giustizia diventa autosufficienza. Non ha nulla da chiedere, e così nulla riceve. È il rischio di ogni religione ridotta a norme e doveri: Dio diventa superfluo. Il pubblicano, al contrario, è un peccatore vero, non immaginario. Colluso con i Romani, arricchito a spese del popolo, vive in una situazione morale compromessa. Eppure trova la forza di bussare a Dio: non presenta meriti, non cerca scuse, non alza neppure gli occhi al cielo. Solo una supplica: «O Dio, abbi pietà di me peccatore!».
Il saggio Siracide afferma, nella prima lettura (35,12-14.16-18), che «la preghiera del povero attraversa le nubi», cioè arriva sempre a Dio. L’immagine suggerisce che non tutte le preghiere riescono a raggiungere la loro meta, ma quella del povero sì. Il “povero” in senso biblico non è semplicemente chi ha pochi mezzi materiali, bensì chi è umile, chi non fa affidamento sulle proprie forze, chi riconosce la propria fragilità e il proprio limite. È l’opposto del presuntuoso, che si fida solo di sé stesso e si illude di essere autosufficiente. La forza della preghiera del povero sta proprio in questa verità interiore: nasce da un cuore che non pretende, non si vanta, ma si affida totalmente a Dio. Per questo è una preghiera autentica, che non resta sospesa a metà strada, ma «attraversa le nubi», e raggiunge il Signore.
Dove ci collochiamo noi? Forse, più spesso di quanto pensiamo, siamo farisei che recitano la preghiera del pubblicano: peccatori immaginari, con peccati immaginari, che ricevono una grazia immaginaria. È quella che Dietrich Bonhoeffer chiamava «la grazia a buon mercato»: perdono senza conversione, fede senza sequela, Cristo senza croce. Eppure il Vangelo non lascia spazio a illusioni. Il peccato più grave non è solo fare il male, ma non fare il bene. Nessuno è veramente giusto; tutti abbiamo bisogno di misericordia.
Per il fariseo, la grazia è essere liberato dall’illusione di innocenza; per il pubblicano, la grazia è la liberazione dalla colpa. Entrambi devono guardarsi non nel proprio specchio, ma nello specchio di Cristo: il fariseo nella sua vita, che smaschera ogni falsa giustizia; il pubblicano nella sua croce, che cancella ogni peccato.
Così si compie il cerchio della misericordia: non esclusione, ma abbraccio universale. Come scrive Paolo: «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia » (Romani 11,32). Raccontare la misericordia significa proprio questo: non c’è vita che ne sia fuori, non c’è cuore che non ne abbia bisogno.


