di Paolo Borrometi, giornalista, vicedirettore dell'Agenzia AGI

Il modo in cui comunichiamo, negli ultimi anni, è cambiato radicalmente. L'iper connessione digitale, i social media e il ritmo frenetico delle informazioni hanno trasformato la comunicazione in "un'arena". L'aggressività verbale è, purtroppo, diventata una strategia diffusa, soprattutto nel dibattito pubblico. Basti vedere le ultime campagne elettorali, in particolare le elezioni americane, dove gli insulti personali tra i candidati hanno certamente superato le dichiarazioni programmatiche. Ed anche queste ultime miravano a una scarsa umanità rispetto a temi che andrebbero affrontati con una complessità che cozza con gli slogan.

Insomma, questioni complesse non possono essere derubricate a slogan di parte. Eppure questo approccio, almeno nel breve termine, rischia di rivelarsi vincente.

L'aggressività crea dibattito, amplifica la visibilità e può persino consolidare un seguito di persone che si identificano con quel tipo di messaggio. Tuttavia, questa strategia ha un prezzo.
Se è vero che una comunicazione aggressiva può generare attenzione immediata, è altrettanto vero che, nel lungo periodo, porta inevitabilmente a erodere i consensi, la fiducia dei cittadini e certamente la credibilità. Infatti, paragonato a un tempo che fu, nel periodo che viviamo ci accorgiamo quanto il consenso sia sempre più contraddistinto da un veloce picco seguito pressoché immediatamente dalla flessione.

Ecco quindi che il ruolo dell'informazione non deve mai adeguarsi all'imbarbarimento del dibattito pubblico e politico, mirando sempre più a una umanità contraddistinta dalla speranza. Guerre, crisi economiche, emergenze climatiche e tensioni sociali sembrano riempire ogni spazio mediatico, generando un senso diffuso di ansia e impotenza.

Anche perché spesso sono raccontate con toni allarmistici e scenari catastrofici, proprio in linea con alcune dichiarazioni da propaganda elettorale. Ed è qui il problema, quando l'informazione si allinea alla propaganda in maniera acritica. Se l'informazione si limita a enfatizzare il pericolo senza offrire prospettive di miglioramento, il rischio è che le persone si sentano sopraffatte.

La linea ce la offre, come spesso accade, il Santo Padre, il quale afferma che «La comunicazione è un atto di speranza». Con questa frase papa Francesco ha sintetizzato un concetto fondamentale: «la comunicazione non è solo un mezzo per trasmettere informazioni, ma un'opportunità per costruire ponti, per creare legami, per dare voce a chi è in difficoltà, agli ultimi».
In un contesto mediatico sempre più polarizzato, la speranza diventa l'elemento chiave per orientare il lavoro giornalistico. Un'informazione che bilancia il racconto delle criticità con la narrazione delle soluzioni può incoraggiare l'impegno collettivo e la fiducia nel futuro.

Come operatori dell'informazione siamo chiamati non solo a raccontare il presente, ma a contribuire attivamente alla costruzione di una realtà più giusta e solidale. E, soprattutto, a non banalizzare o liquidare questioni complesse con soluzioni eccessivamente semplicistiche.

- Articolo tratto da PAGINE APERTEspeciale Settimana della Comunicazione

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