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Quando un bambino si ammala gravemente, la vita della famiglia si capovolge. I genitori sospendono il lavoro, i fratelli cambiano scuola, spesso si vendono casa e beni pur di accompagnare il figlio verso le cure, anche a costo di trasferirsi lontano. Succede a quasi 90.000 famiglie italiane ogni anno, travolte dalla cosiddetta mobilità sanitaria pediatrica: viaggi forzati verso le grandi città, da Roma a Milano, per accedere a trattamenti specialistici non sempre disponibili nei territori di origine. In un terzo dei casi, si tratta di bambini con disabilità o patologie croniche che impongono lunghe degenze e percorsi complessi.
Dietro ai numeri, ci sono persone che rinunciano a tutto, inclusa la propria salute. «Molti caregiver si trascurano, rimandano controlli di routine, cadono nell’isolamento o nella depressione», spiega Maria Chiara Roti, direttrice generale della Fondazione per l’Infanzia Ronald McDonald Italia ETS. Da oltre 25 anni, la Fondazione prova a rispondere a queste fragilità con un modello semplice quanto rivoluzionario: tenere unite le famiglie durante la cura, offrendo ospitalità gratuita in Case Ronald e Family Room vicine ai maggiori ospedali pediatrici italiani.
L’impatto è concreto: solo nel 2024, oltre 2.500 nuclei familiari hanno trovato accoglienza in una delle 4 Case Ronald e 4 Family Room, evitando di spendere fino a 100 euro a notte in città dove il mercato immobiliare è ormai proibitivo. Dalla storica Casa di Roma Palidoro – la più grande d’Italia, con 33 alloggi e una vista mare che regala un po’ di sollievo – fino ai progetti in cantiere a Milano e Napoli, la rete è destinata a crescere: «L’obiettivo è raddoppiare le famiglie accolte entro il 2030 e costruire Case anche per il Policlinico Gemelli e l’Ospedale Federico II di Napoli», prosegue Roti.
Il modello di riferimento è quello del Family Centered Care, un approccio sempre più condiviso anche tra gli specialisti che riconosce il caregiver – il familiare che assiste il minore – come parte integrante della terapia. Lo ribadisce Michele Salata, direttore delle Cure Palliative Pediatriche del Bambin Gesù di Roma, che ha appena rinnovato la convenzione con la Casa Ronald di Palidoro per altri 20 anni: «La presenza dei genitori è un tassello fondamentale. Permette di umanizzare la cura, aiuta il bambino, ma serve anche al rientro a casa, specie nei casi più complessi o terminali».
A Milano, intanto, il Grande Ospedale Metropolitano Niguarda si prepara ad ampliare la propria Family Room di 600 metri quadri, uno spazio non solo per i piccoli pazienti, ma anche per chi li accompagna. «I genitori arrivano qui travolti da uno tsunami emotivo – racconta Laura Zoppini, direttore socio-sanitario del Niguarda – Devono affrontare la diagnosi, le paure, a volte la depressione. Non possiamo lasciarli soli».


Il tema è diventato centrale anche per le istituzioni. Durante la conferenza stampa “Disabilità e accoglienza. Pazienti pediatrici e caregiver al centro della cura”, tenutasi alla Camera dei Deputati, il Ministro per le Disabilità Alessandra Locatelli ha annunciato un disegno di legge che finalmente riconosca il ruolo dei caregiver familiari, con tutele adeguate, formazione e supporti. «In Italia la prima cura è la famiglia – ha dichiarato il Ministro – Dobbiamo metterci al pari con gli altri Paesi e garantire un sistema di servizi che eviti di lasciare soli i caregiver».
Un appello che va oltre le parole. La Fondazione Ronald ha proposto che nelle Case e strutture ospedaliere convenzionate si offra un check-up sanitario gratuito annuale a tutti i caregiver. Un gesto di prevenzione che protegge chi si prende cura, evitando che lo stress e il sacrificio si trasformino in nuove malattie e nuovi costi sociali.
Perché, come sottolineano da anni i promotori di questo nuovo welfare della prossimità, quando si cura un bambino, si deve curare anche il suo mondo. E il primo, insostituibile, “farmaco” è il calore della propria famiglia.



