Dodici anni fa, la vita di Carolina Picchio e della sua famiglia cambiò per sempre. A soli 14 anni, dopo aver subito una violenza di gruppo e l’umiliazione della diffusione del video sui social, Carolina decise di togliersi la vita, gettandosi dal terzo piano della sua abitazione di Novara.
Da quel dolore immenso è nata una luce: la Fondazione Carolina, che porta avanti il sogno di “Caro”, come la chiamava suo padre, di un mondo digitale più sicuro e consapevole per i ragazzi. Lunedì 6 ottobre, al Senato della Repubblica, Paolo Picchio ha presentato il suo libro Le parole fanno più male delle botte (De Agostini), una testimonianza toccante e necessaria che invita genitori, educatori e istituzioni a non voltarsi dall’altra parte. Un racconto che non parla solo di dolore, ma anche di responsabilità, amore e rinascita.

“Le parole fanno più male delle botte”: la storia di Carolina che ha cambiato il modo di guardare la rete

Un video diffamatorio postato in rete. Una lettera che diventa un testamento. La storia di una ferita collettiva che si apre alla speranza.
Dodici anni fa, tra il 4 e il 5 gennaio 2013, Carolina Picchio, per tutti Caro, si è tolta la vita a soli quattordici anni, dopo che un video diffamatorio era stato diffuso sui social. Campionessa di sci, allegra, generosa, amata dai compagni, Carolina era una ragazza piena di vita. Ma quella notte, la fragilità dell’adolescenza e l’umiliazione pubblica si trasformarono in un dolore insopportabile. Prima di andarsene, lasciò un messaggio che continua a parlare ancora oggi: “Le parole fanno più male delle botte”. Parole che non condannano, non accusano, ma chiedono comprensione, ascolto, consapevolezza.

Dalla storia di Carolina nasce un cambiamento
Da quella tragedia è nata una rivoluzione culturale. Per la prima volta in Italia si parlò apertamente di cyberbullismo e della necessità di tutelare i più giovani nella dimensione digitale. Da allora, il padre di Carolina, Paolo Picchio, non ha mai smesso di portare avanti il suo messaggio, trasformando il dolore in impegno civile.

Oggi, nel libro Le parole fanno più male delle botte (De Agostini), presentato ieri al Senato della Repubblica su iniziativa della senatrice Lavinia Mennuni, Picchio ripercorre la storia di sua figlia: i fatti, le indagini, l’approvazione della prima legge italiana di prevenzione e contrasto del cyberbullismo e la nascita della Fondazione Carolina, di cui è presidente onorario.
“Questo libro – ha spiegato la senatrice Mennuni – racconta una vicenda che ci obbliga a riflettere: i nostri bambini e adolescenti sono i primi da tutelare nella società digitale. La tecnologia è un dono, ma può diventare una minaccia se non viene governata con responsabilità”.

Anche Ivano Zoppi, segretario generale della Fondazione Carolina, ha ricordato come l’impegno non deve fermarsi alla memoria: “Con la Fondazione cerchiamo di condividere il messaggio di Carolina con i ragazzi e con i genitori. La tecnologia è una straordinaria opportunità, ma se usata male diventa un rischio. Serve più consapevolezza, più dialogo, più educazione digitale”.

Le parole possono salvare
Oggi, “papà Picchio” – così lo chiamano i giovani che incontra nelle scuole – continua a portare la sua testimonianza in tutta Italia. “Carolina – spiega Paolo Picchio – è stata la prima a gridare: ragazzi, perché siete così insensibili? Non capite che le parole fanno più male delle botte? Da quel grido è nato il primo processo per cyberbullismo e, grazie a lei, la prima legge italiana ed europea in materia. Ma non basta: il disagio tra i giovani cresce, e la depressione è sempre più diffusa. Per questo abbiamo voluto creare un centro di ascolto, a Milano, dove i ragazzi e le famiglie possano trovare sostegno e non sentirsi soli”.                                                                                                                                  
Il libro di Paolo Picchio è una testimonianza potente e necessaria. Non è solo il racconto di un dolore, ma una chiamata alla responsabilità collettiva: quella di genitori, insegnanti, istituzioni e di tutti noi, chiamati a costruire un ambiente digitale più sano e sicuro.
Perché le parole, se usate con amore, possono ancora salvare.