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Mentre l’estate accende, come di consueto i riflettori sul calciomercato, con milioni di euro che volano tra società e procuratori, c’è un altro mercato, sommerso e drammatico, che si intensifica proprio in questo periodo: quello del football trafficking. Un traffico di esseri umani che ha come vittime ragazzi, spesso minorenni, provenienti da Africa e Sud America, attirati in Europa o in Asia con il sogno del pallone e finiti invece in una rete di inganni, abbandono e sfruttamento.
Secondo l’ong Foot Solidaire, ogni anno circa 15.000 giovani da tutta l’Africa partono con la speranza di diventare calciatori professionisti. «Si parla di 60.000 minori coinvolti in dieci anni, ma ci sono anche stime che parlano di numeri ancora più alti» racconta Paola Cereda, psicologa e scrittrice, che ha appena pubblicato il romanzo L’unico finale possibile (Bollati Boringhieri), ispirato proprio a storie vere che ha intercettato e seguito collaborando con Asai, l’associazione di animazione interculturale che opera nei quartieri popolari di Torino. «Sono ragazzi che partono con un investimento economico enorme da parte delle famiglie, si ritrovano dall’altra parte del mondo senza riferimenti e, quando capiscono di essere stati truffati, non possono più tornare indietro. Si sentono la responsabilità della loro famiglia sulle spalle. Per loro è il più grande fallimento».
Il football trafficking è un fenomeno ancora poco conosciuto rispetto alla migrazione via mare. Meno numeroso ma altrettanto grave. «Cosa differenzia questi ragazzi da chi arriva sui barconi? Apparentemente nulla, se non il percorso. Ma nella loro testa il viaggio è legato a un sogno, alla passione per il calcio, a un futuro da campioni. Quando quel sogno si spezza, resta solo la vergogna e il senso di smarrimento» spiega Cereda. «Molti di loro non parlano volentieri di quello che è accaduto. Perché raccontare una storia che per te rappresenta il più grande fallimento»?
Dietro le promesse di provini e contratti si nasconde spesso un sistema criminale organizzato. «La Fifa, la la federazione internazionale del calcio, ha cercato di arginare il fenomeno vietando il trasferimento dei minori non accompagnati, ma le leggi vengono aggirate attraverso finte accademie di calcio e falsi procuratori» denuncia Cereda. E in molti casi il football trafficking si intreccia con altri traffici illegali, come droga e prostituzione. In Italia il fenomeno è meno documentato che altrove, ma non assente. L’Interpol ha segnalato casi di vittime legate al mondo dello sport anche nel nostro Paese, anche se l’ultima inchiesta di polizia risale al 2017 e non ci sono dati precisi sul fenomeno.


«Il problema è che queste giovani vittime, restano senza prospettive e invisibili anche a livello legale. Non rientrano infatti nei percorsi classici di richiesta d’asilo o protezione. Sono fantasmi, sospesi in un limbo» continua la psicologa e scrittrice. «E quando il sogno si infrange, restano solo la frustrazione, l’isolamento, le ferite psicologiche. La perdita di fiducia negli altri e nel futuro. Per questo, nelle associazioni come la nostra, si lavora sulla riabilitazione del sogno. La speranza di poter giocare a calcio è fondamentale, perché dà la prospettiva di andare verso qualcosa». Il romanzo di Paola Cereda racconta la vicenda di Momo, giovane senegalese arrivato in Europa con la promessa di un provino. La sua storia nasce dall’esperienza diretta. «All’interno della compagnia teatrale integrata che coordino a Torino, per un periodo sono arrivati diversi minori stranieri non accompagnati. Molti di loro erano partiti proprio con il sogno del calcio. Ma non ne parlavano volentieri: raccontare un sogno tradito significa ammettere un fallimento personale e familiare».


Il teatro, così come la letteratura, possono essere uno strumento per dare voce a chi altrimenti resterebbe ai margini. «Credo che la funzione delle storie sia proprio quella di far emergere ciò che sta nell’ombra. Il football trafficking è un fenomeno sommerso, ma reale. Raccontarlo significa moltiplicare le possibilità che queste storie vengano ascoltate, comprese, affrontate. E magari dare ai ragazzi una nuova prospettiva. Un altro finale, l’unico finale possibile: quello scritto con le loro mani, o piedi. Per questo ho voluto scrivere questo romanzo» conclude «perché mi sono resa conto che sul football trafficking mancavano racconti capaci di arrivare al cuore delle persone. E a volte solo le storie sanno davvero accendere la luce su ciò che resta nascosto».



