Durante la campagna elettorale, Amnesty International aveva pubblicato l’Agenda per i diritti umani in Italia, sottoscritta da tutti i leader dei principali schieramenti e da 117 parlamentari. Il primo dei dieci punti era “Garantire la trasparenza delle forze di polizia e introdurre il reato di tortura”.

A nove mesi di distanza, in Senato è in discussione un disegno di legge sull'introduzione del delitto di tortura nel codice penale, ma, secondo l’associazione, la definizione che propone è “inaccettabile”.

Ne parliamo con il professor Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia e docente di Diritto internazionale all'Università di Teramo.

– Perché è necessario introdurre il reato di tortura? Non è sufficiente l’attuale legislazione?

«Vi è prima di tutto una ragione di ordine formale: ratificando la Convenzione contro la tortura del 1984, l’Italia si è impegnata con le Nazioni Unite a “criminalizzare” gli atti di tortura, ma questo reato è presente solo nel codice militare, nei codici ordinari rimane un concetto sconosciuto. In questi anni, infatti, i Governi hanno dato un’interpretazione “minimalista” degli obblighi internazionali: va bene che le cose rimangano così – si è detto – purché i fatti che sarebbero sanzionati dal reato di tortura siano coperti da altri reati generici. Peccato che proprio questo meccanismo abbia portato alla depenalizzazione di fatto, con un’interpretazione funzionale alla sottovalutazione del fenomeno. Occorre invece sottrarre questi fatti all’ordinaria amministrazione, dando risposte giuridiche specifiche ed adeguate. Per altro, la Convenzione Onu prevede non solo l’obbligo di punire, ma anche come punire, con forme di giurisdizione più ampia, anche extraterritoriale, nello spirito della giurisdizione universale sui crimini contro l’umanità. Ebbene, con la mancanza tipizzazione del reato di tortura, anche altri obblighi a cascata non possono essere rispettati».

– Può fare degli esempi di processi in cui la mancanza del reato di tortura è stato un problema?

«In uno dei due processi sul G8 di Genova, quello relativo alle violenze nella caserma di Bolzaneto, sono stati gli stessi pubblici ministeri a dire che i fatti rientravano nella definizione internazionale del reato di tortura, ma, a causa della lacuna della legislazione italiana, dovevano chiedere una condanna per reati minori come l’abuso di ufficio. Di fatto ha voluto dire condonare la tortura: per la lunghezza del processo ed essendo le sanzioni previste per l’abuso d’ufficio decisamente inferiori, le pene sono state prescritte. Un caso analogo ad Asti, dove alcuni agenti erano sotto processo per episodi prolungati di tortura su due detenuti; in primo grado, il giudice ha detto che condannava per altri reati in mancanza del reato specifico».
Per Amnesty, se il testo non cambia, si è sotto la soglia minima di accettabilità, è uno schiaffo.
– Qual è la situazione attuale in Parlamento?

«Dopo il fallito tentativo della legislature precedenti, in Commissione Giustizia del Senato sono stati presentati in modo celere diversi nuovi disegni di legge, confluiti nel testo unificato presentato il 17 settembre dal relatore Nico D’Ascola (allora Pdl). Ma la definizione di tortura proposta è inaccettabile, per esservi tortura sarebbe infatti necessario che vengano commessi “più atti di violenza o di minaccia”. Un solo atto del genere potrebbe quindi consentire di evitare una condanna. Per Amnesty, se il testo non cambia, si è sotto la soglia minima di accettabilità, è uno schiaffo. Eppure, non servivano sforzi di fantasia da parte dei legislatori: bastava adottare la definizione dell’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite. Inoltre, la definizione è restrittiva anche da un altro punto di vista: non tiene conto che la tortura moderna è diversa da quella medievale, non mira solo a far male fisicamente ma, magari utilizzando tecniche diverse come forme di deprivazione sensoriale o farmaci, è finalizzata a distruggere l’individuo».

– Perché a suo avviso non si è tenuto conto della definizione dell’Onu?

«Si potrebbero ipotizzare due letture. Da un lato, forse si vorrebbe limitare fortemente i casi del reato per difendere una presunta libertà di azione delle forze dell’ordine, difesa di cui molti sindacati di polizia farebbero volentieri a meno. Dall’altro lato, e questa sarebbe l’ipotesi peggiore, proprio perché questo era stato il punto di rottura anche in passato, si potrebbe pensare che si voglia far saltare del tutto l’introduzione del reato».

– Qual è la situazione negli altri Paesi europei?

«La maggior parte ha un reato o un aggravate specifico, come in Belgio, Repubblica Ceca, Croazia, Francia, Finlandia, Germania, Irlanda, Liechtenstein, Macedonia, Moldavia, Montenegro, Norvegia, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Russia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Turchia e Ucraina. Noi italiani non siamo gli unici con questa lacuna, però siamo in minoranza».

– Nella vostra Agenda, avete collegato il reato di tortura con l’introduzione di misure sulla trasparenza delle forze di polizia; su questo com’è la situazione?

«Purtroppo non ci sono sviluppi significativi, nonostante le raccomandazioni del Consiglio d’Europa e casi come le morti di Federico Aldovrandi, Stefano Cucchi e Giuseppe Uva ne abbiano mostrato l’urgenza. Durante le manifestazioni, per esempio, rimane impossibile accertare le responsabilità individuali, un problema che sarebbe facilmente risolvibile con l’introduzione dei codici alfanumerici sui caschi degli agenti in piazza».