Cos’è cambiato dall’assassinio di Giulia Cecchettin? Le donne non sono forse più vittime di uccisioni e violenza? No. I tappeti di fiori davanti alla casa della sua infelice famiglia non riescono a toccare il cuore di nuovi mariti, compagni, predatori in agguato: nuove morti, ancora possesso spacciato per amore. È forse cambiata, ed è giusto, la percezione, la coscienza collettiva.
Sarebbe drammatico se fosse un’onda destinata a smorzarsi, spenti i riflettori sulla tragedia che ha coinvolto e sconvolto tutti noi. Una giusta reazione di sdegno, commozione, impegno, che ha dato voce a tante donne e a chi si occupa di sostenerle e renderle libere. Ma la risposta a parole è sbagliata: “Il patriarcato!”, si grida e si scrive. Il patriarcato messo all’indice oppone il maschile al femminile, a priori, cancella le differenze benedette tra i sessi, mette alla gogna le famiglie, anche quelle buone. Patriarcato è la parola magica con cui stoppiamo il nostro disagio, il nostro sconcerto.
Per non sentirci troppo in colpa come società, come educatori, come uomini e donne deprivati del Giusto e del Bene cerchiamo il capro espiatorio. Ma patriarcato è un termine generico, astratto, farne l’origine di ogni reato nei confronti delle donne toglie responsabilità ai colpevoli. Se sono stati cresciuti nella mentalità, nella cultura patriarcale, gli uomini reagiscono di conseguenza. Ed è sempre la società insomma a renderci cattivi, il male non lo scegliamo liberamente. Invece no, Filippo Turetta è giovane, non pare figlio di un padre padrone, se è folle lo deciderà una perizia, oppure ha lucidamente voluto uccidere Giulia. I terroristi che hanno stuprato e ucciso le ragazze israeliane il 7 ottobre erano figli del patriarcato? Le hanno massacrate, hanno annientato e mutilato il loro corpo per colpire il nemico.
E perché allora si inneggia nelle piazze al loro eroismo liberatore? I rapper autori di testi indegni che spopolano nelle radio, sui social tra i ragazzini non sono figli di una cultura patriarcale, ma sono violenti. I gesti rabbiosi e gli insulti in troppe manifestazioni a favore delle donne non esprimono una cultura patriarcale, ma sono violenti. La devastazione e le offese alla sede dell’associazione Pro Vita sono opera di donne e uomini in corteo contro la violenza sulle donne, e sono atti violenti, Il silenzio di chi occulta, condivide, fomenta ed è complice è violento. Non basta cancellare le scritte sui muri. La macchia, resta.
Se il martirio di Giulia sarà occasione di contrapposizioni ideologiche, di odio diffuso e propagandato dalle scuole alle piazze, come scudo o peggio, se sarà sfruttato per obiettivi politici, sarà proprio un peccato. E chi crede sa bene che proprio il peccato, l’inimicizia con Dio, è la causa di un rapporto alterato tra l’uomo e la donna. Una verità che non copre, non giustifica il dominio prepotente dell’uomo sulla donna, lo snaturarsi dell’amore, ma lo spiega. Amare non vuol mai dire “tu sei mia”. Ma neppure “io sono mia” è la chiave per la liberazione.