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martedì 10 settembre 2024
 
GIUSTIZIA
 

Abuso d'ufficio, Riforma Nordio, che cosa cambia, perché fa discutere

10/08/2024  Il presidente della Repubblica promulga la legge Nordio, a meno di due anni dalla riforma Cartabia: cambiano norme sostanziali e procedurali. Suscitano dibattito in Italia e in Europa. Cerchiamo di capirne di più

Il presidente della Repubblica, promulga il Ddl Nordio. Diventa legge con 199 voti favorevoli (maggioranza di Governo e centristi) e 102 contrari la norma, approvata un mese fa, che cancella dal Codice penale italiano il reato di abuso d’ufficio, ridimensiona il traffico di influenze e modifica aspetti procedurali in tema di pubblicabilità di intercettazioni, emissione di misure cautelari. Otto articoli su temi molto diversi tra loro, di cui cinque fanno parecchio discutere. 

Capiamone di più

ABUSO D'UFFICIO, IL TEMA PIÙ DISCUSSO

L'art. 323 del Codice penale puniva con la reclusione da uno a quattro anni il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento del suo lavoro, violando regole di condotta previste dalla legge procurava a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o arrecava ad altri un danno ingiusto.

La norma era stata riscritta più volte, negli ultimi 20 anni, l’ultima nel 2020. Le modifiche sono dipese dal fatto che era accusata di essere troppo generica e di instaurare negli amministratori pubblici e in particolare nei sindaci la cosiddetta “paura della firma” o “burocrazia difensiva”, ossia il timore di incappare in un’indagine penale per abusi nell’esercizio delle funzioni, benché fossero largamente maggioritari i casi in cui le medesime indagini finivano in archiviazione.

Come spesso accade, anche in questo caso su una riforma recente, nella fattispecie quella del 2020, se ne sovrascrive un'altra senza che alla prima si sia dato il tempo di stabilizzarsi, di verificare se abbia avuto o meno l’efficacia e gli effetti attesi. E anche senza poter valutare se la recente riforma abbia o meno nei fatti superato le difficoltà della norma che la precedeva. Mentre la retroattività della norme penale, se più favorevole al reo, determina situazioni da sanare. 

Pro e contro

  

Chi ha ritenuto di abrogare la norma sull’abuso d’ufficio (maggioranza di Governo + Azione e Italia Viva) sostiene che la modifica del 2020 non fosse ancora sufficientemente tipizzata, ossia che restasse ancora generica, altri, anche in parte concordi nel riconoscerne i difetti, ritenevano che sarebbe stato il caso di scriverla in modo da sanzionare condotte più precise anziché abolirla definitivamente creando un vuoto normativo.

Le complicazioni dell'abolizione

Nel mondo del diritto l’abuso d’ufficio ha suscitato per anni un ampio dibattito, ma a far discutere era soprattutto la qualità di scrittura della norma, il bisogno di meglio definirla per evitare indagini inutili a intasare la giustizia e a complicare la reputazione di chi vi incappava, nella consapevolezza che l’abolizione totale avrebbe potuto creare delle complicazioni: nella tutela del cittadino, lasciato scoperto e privo di tutela rispetto all’abuso o all’omissione del pubblico amministratore e nella tutela della Pubblica amministrazione che avrebbe potuto uscire danneggiata dall’amministratore disonesto. Ma anche  nella possibilità di lasciare senza uno scudo "penale" sotto cui ripararsi l'amministratore esposto a pressioni e intimidazioni in contesti mafiosi.

Le osservazioni dell'Anac

  

Dell’avviso di una migliore definizione sia in tema di abuso d’ufficio, sia di traffico di influenze, andavano certamente le osservazioni inviate al Parlamento dall’Autorità Nazionale anticorruzione (Anac) che condividevano: «l’obiettivo di addivenire ad una determinazione ancora più rigorosa e puntuale della fattispecie di cui all’art. 323 c.p. e del suo ambito applicativo, evitando tuttavia effetti formalmente o sostanzialmente abrogativi. Un eventuale intervento legislativo volto ad una migliore definizione della fattispecie consentirebbe, infatti, di introdurre nell’ordinamento le debite garanzie contro il rischio di una eccessiva estensione del sindacato penale sull’azione dei funzionari pubblici - al di fuori delle ipotesi di reato previste e disciplinate da altre norme di legge, rispetto alle quali l’art. 323 c.p. presenta un carattere residuale - permettendo al tempo stesso di assicurare la perseguibilità anche in sede penale di quelle condotte lesive dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione non coperte da altre previsioni di legge». Anac, attraverso il suo attuale presidente Busìa sosteneva le proprie tesi, con tre argomentazioni a contrarie alla cancellazione tout court del reato: 1) La necessità, nel valutare le statistiche di archiviazione, di tenere conto dei cambiamenti intervenuti di recente: il numero elevato delle archiviazioni relative a indagini iniziate con la legge precedente, è dovuto anche al fatto che la norma precedente era più restrittiva, prima del 2020 si andava a giudizio per condotte che dopo non erano più punite. Mentre intanto la riforma Cartabia (2022) chiede che il Gip, su tutti i reati, mandi a giudizio solo se c’è una prognosi di condanna, quindi in generale: meno casi di rinvio a giudizio, rispetto alla normativa precedente. 2) Il rischio che l’abrogazione «si ponga in contrasto con le previsioni europee, ed in particolare con il richiamato articolo 12 della Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa del 1999 (La cosiddetta convenzione di Merida ndr.)» mentre l’articolo 11 della Direttiva europea proposta il 3 maggio 2023 e approvata il 14 giugno 2024 che nella proposta imponeva la penalizzazione dell’abuso d’ufficio ora lascia ai singoli la «facoltà di introdurre o eliminare il reato di abuso di ufficio». 3) Il fatto che l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze rappresentano spesso un reato-spia di più gravi reati nella sfera della corruzione.

 

Potenziali effetti paradossali

Tra gli argomenti ricorrenti a favore di una rimodulazione, anziché della cancellazione da una parte c’era il rischio di un “effetto paradossale”, ossia che in caso di abuso, in mancanza di un reato specifico adatto a sanzionare quel comportamento, se ne possa contestare uno più grave, dall’altra l’eventualità di mandare impunito comportamenti in cui l’amministratore pubblico sfrutta a fini privati o in danno di qualcuno la propria funzione, mandando nel contempo un messaggio di impunità al Paese e uno di scarsa tutela agli investitori stranieri. L'Associazione Nazionale Magistrati parla di «amnistia mascherata per 3-4.000 colletti bianchi, che potranno chiedere  la revoca della condanna.

L'abuso rientra dalla finestra? Lo strano caso del "Decreto carceri"

  

Caso “strano” vuole che mentre con la mano destra si è cancellato l’abuso d’ufficio con la sinistra, nelle stesse ore si è fatto rientrare dalla finestra del testo del Decreto legge del 4 luglio 2024 recante «Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia», n. 92 in vigore dal 5 luglio 2024, un “nuovo” reato che esisteva nel codice qualche decina di anni fa con il nome di “peculato per distrazione”, oggi denominato «Indebita destinazione di denaro o cose mobili», dove “distrazione” non era intesa ovviamente nel significato comune di “disattenzione”, ma in quello etimologico di “deviazione” di denari o beni che a disposizione per ragioni di ufficio vengano utilizzati per fini impropri. Si trova all’articolo 9 del decreto sotto il titolo generico di modifiche al Codice penale, in cui si legge: «Al codice penale dopo l’articolo 314 (peculato ndr.) è inserito il seguente: “Fuori dei casi previsti dall’articolo 314, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità e intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”». Di questa modifica il comunicato del 3 luglio che annunciava il Decreto carceri non faceva menzione.

Questo modo di legiferare, caratterizzato dalla disorganicità che di solito si rimprovera al cosiddetto “milleproroghe” o ai “decreti omnibus” che affastellano insieme norme su argomenti molto diversi tra loro, suscita critiche per la sua apparente contraddittorietà con la norma appena abrogata, anche se il ministro della Giustizia Carlo Nordio esclude ogni attinenza con l’abuso d’ufficio.

Non è chiaro quale sia la ragione di questa introduzione in un contesto che si occupava di altro: c’è chi vi legge la tardiva presa d’atto della necessità di coprire in parte il “buco” lasciato dall’abuso d’ufficio; chi un effetto della “moral suasion” del Colle; chi il tentativo di di rassicurare l’Ue.

TRAFFICO DI INFLUENZE, PROBLEMA CON L'EUROPA?

Per il traffico di influenze il problema è simile a quello dell’abuso d’uffcio: c’è stata obiettivamente una certa difficoltà ad applicare un reato definito da molti addetti ai lavori, che fanno appunti alla tecnica legislativa, “evanescente”, con un difetto nella “tipizzazione”. Anche qui il problema poteva essere quello di definirlo meglio, anziché restringerlo troppo, se non altro per non incorrere in rischi di procedure di infrazione europee.

Se il combinato disposto tra il reato rientrato di "sguincio" nel decreto carceri e la direttiva europea che non “obbliga” gli stati membri al reato di abuso di ufficio, può evitare all’Italia di finire sotto la lente che controlla la rispondenza del contrasto alla corruzione alle richieste sovranazionali, lo stesso potrebbe non dirsi per il traffico di influenze, il reato nato di per punire il cosiddetto faccendiere. Questo perché: l’articolo 12 della convenzione del Consiglio d’Europa sulla corruzione, firmata a Strasburgo nel 1999, impone di punire il traffico d’influenze illecite, anche nel caso in cui il mediatore tra funzionario pubblico e privato millanti entrature che nella realtà non ha.

Giusto un paio di settimane fa, le sezioni unite della Cassazione, hanno chiarito che il traffico di influenze non assorbe automaticamente le condotte del vecchio millantato credito, reato cancellato nel 2019. Ora che anche il traffico di influenze viene ristretto, l’Europa potrebbe avere qualcosa da dire. La restrizione riguarda non solo il fatto che non si può punire chi ottiene mediando un accordo illecito, facendo credere di avere un contatto con il pubblico funzionario che non ha, ma anche il fatto che il “faccendiere” può essere punito solo se ottiene un compenso economico, ma si sa che oggi il prezzo di tanti fenomeni corruttivi passa per le cosiddette altre utilità: favori sessuali, raccomandazioni, posti di lavoro a coniugi e figli, vantaggi politici assortiti, mentre la convenzione europea contro la corruzione si riferisce a un più ampio «Qualsiasi indebito vantaggio». E intanto si riscontra l’ennesino inasprimento della pena, per i casi più gravi, che fa dire ai critici che siamo nel florido campo sempre florido delle gride manzoniane, molto minacciose ma poco efficaci.

CUSTODIA CAUTELARE "CON PREAVVISO", PIÙ ECCEZIONI CHE REGOLA

  

Si prevede, per dare garanzie maggiori, che l’interrogatorio obbligatorio a garanzia dell’indagato alla presenza del difensore, che oggi avviene subito dopo l’arresto per custodia cautelare, chiamata così perché avviene prima del processo, in fase di indagini, a scopo di cautela appunto, debba avvenire invece prima, salvo i casi in cui sia necessario che resti l’effetto sorpresa.

Va ricordato che la custodia cautelare attualmente è possibile solo in tre casi: pericolo di fuga attuale, pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di reiterazione del reato. Va da sé che l’effetto sorpresa è generalmente necessario per non vanificarne l’utilità. La modifica consente dunque sempre di posticipare l’interrogatorio in caso di pericolo di fuga o inquinamento, perché “avvisare” in quei casi l'indagato dell’arresto immenente vorrebbe dire metterlo in condizioni di agire; per quanto riguarda invece la reiterazione del reato, l’interrogatorio potrà essere posticipato solo per una serie di reati particolarmente gravi, per fatti violenti o che destano particolare allarme sociale (individuati dalla legge), negli altri casi dovrà essere anticipato.

Questo fa dire ad alcuni che nei fatti l’eccezione sarà molto più frequente della norma, ad altri che la misura sembra tagliata sui reati “puliti” tipici dei colletti bianchi, per i quali si ritiene non desti evidentemente allarme sociale la reiterazione, cosa che per altro non impedirà di continuare a contestare loro la motivazione forse più frequente di inquinamento delle prove.

TRE GIUDICI PER IL CARCERE "PRE PROCESSO", RISCHI PARALISI TRIBUNALI

Desta invece preoccupazione di fattibilità la decisione seppure differita di due anni, di prevedere un collegio di tre giudici, invece di uno, a decidere la custodia cautelare in carcere, ma solo in carcere, per i domiciliari basta un solo giudice. Se il concetto sotteso alla norma è chiaro: si vuole dare più garanzia a chi rischia di finire in carcere in custodia cautelare, la preoccupazione molto concreta è che questa previsione non faccia i conti con le risorse reali.

Non solo avere tre giudici invece di uno significa infatti triplicare le risorse necessarie a quella funzione, quando già l’organico è insufficiente e non ci sono magistrati pronti da assumere; non solo c’è un problema di costi; ma c’è soprattutto un rischio concreto di paralizzare gli uffici al di sotto di certe dimensioni, perché a garanzia di indagati e imputati è previsto che se un giudice decide in un punto del procedimento poi diventa incompatibile e non potrà più parteciparvi in altri punti. Dove la pianta organica dei giudici non è ampia perché il Tribunale è medio-piccolo potrebbero non esserci abbastanza giudici compatibili per comporre i collegi giudicanti nelle fasi successive del processo. Per ovviare a questo si è dilazionata l’applicazione di due anni al fine di assumere 250 giudici, ma si stima che ne servirebbero molti di più per evitare il cortocircuito.

INTERCETTAZIONI E AVVISI, SEMPRE MENO PUBBLICI

  

Agiscono invece sulla “pubblicità” le nuove regole in fatto di informazione di garanzia, che deve contenere una sommaria indicazione del fatto contestato cosa che al momento non è prevista ed essere consegnata in un contesto che ne tuteli la riservatezza perché non diventi – secondo le intenzioni - sui media un’accusa anticipata; e le novità sulle intercettazioni a tutela dell’immagine di terzi non indagati.

Vietata la pubblicazione anche parziale del contenuto delle intercettazioni se non riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o usato in dibattimento, vietato dare copia delle intercettazioni non pubblicabili se non sono le parti a chiederla, si rafforza il divieto di acquisizione da parte della magistratura di ogni forma di comunicazione tra indagato e difensore, che non sia corrispondenza, a meno che non ci sia fondato sospetto che sia corpo di reato.

La legge vieta anche di riportare nei verbali dati che consentano di identificare persone diverse dalle parti processuali, si rafforza l’obbligo del Pm di vigilare sui verbali e brogliacci della polizia giudiziaria, e il dovere del giudice di stralciare le intercettazioni: non più solo «dati personali sensibili», ma anche dati «relativi a soggetti diversi dalle parti», salvo che risultino rilevanti per le indagini. L’obiezione frequente di chi ha pratica di indagini è che la contezza della rilevanza non è sempre subito chiara, può cambiare man mano che si acquisiscono informazioni. Su questo fronte c’erano già stati interventi, la materia si fa ogni poco più restrittiva e già il Governo annuncia una riforma organica delle intercettazioni.

E intanto viene meno la possibilità di ricorso in appello da parte del Pm, in caso di assoluzione, tranne che per i reati più gravi. Quando infatti una riforma simile (legge Pecorella), ma senza limiti di gravità, era stata approvata dal Governo Berlusconi nel 2006, fu dichiarata incostituzionale dalla Consulta nel 2007. L'argomento era tornato sul tavolo durante le fasi preparatorie della riforma Cartabia, ma poi non era entrato nel testo definitivo.

Resta da capire come questo continuo modificare, impatti su efficienza ed efficacia di un sistema giustizia destinato a restare un cantiere eternamente aperto.

CHE COSA SIGNIFICA LA FIRMA DEL PRESIDENTE

La firma di Mattarella è arrivata proprio allo scadere del tempo previsto, ma il presidente della Repubblica aveva già il 6 marzo scorso in occasione dell'incontro con alcuni rappresentanti della Cassa sanitaria di categoria dei giornalisti, Casagit, ribadito alla stampa e al mondo le regole della promulgazione e i poteri del presidente per correggere eventuali letture strumentali. 

«C'è chi», aveva spiegato in quell'occasione Sergio Mattarella, «gli si rivolge chiedendo con veemenza: “il Presidente della Repubblica non firmi questa legge perché non può condividerla, perché gravemente sbagliata”, oppure: “il Presidente Repubblica ha firmato quella legge e quindi l’ha condivisa, l’ha approvata, l’ha fatta propria”. Il Presidente della Repubblica non firma le leggi, ne firma la promulgazione, che è cosa ben diversa. È quell’atto indispensabile per la pubblicazione ed entrata in vigore delle leggi, con cui il Presidente della Repubblica attesta che le Camere hanno entrambe approvato una nuova legge, nel medesimo testo, e che questo testo non presenta profili di evidente incostituzionalità. Se andasse al di là di questo limite che gli assegna la Costituzione e dicesse, per esempio: “non promulgo questa legge perché c'è forse qualche dubbio di costituzionalità che potrebbe racchiudere e raffigurarvisi”, si arrogherebbe indebitamente il compito che è rimesso alla Corte costituzionale. O se, addirittura, dicesse: “non firmo questa legge perché non la condivido, perché, a mio avviso è sbagliata”, farebbe ben altro, andrebbe al di là di qualunque limite posto dalla Costituzione nel rapporto tra i poteri dello Stato e tra gli organi costituzionali. Quando il Presidente della Repubblica promulga una legge, non fa propria la legge, non la condivide, fa semplicemente il suo dovere, che è quello che ho descritto».

«Sarebbe grave», aveva aggiunto « se uno di questi, e tra questi anche il Presidente della Repubblica, pretendesse di attribuirsi compiti che la Costituzione assegna ad altri poteri dello Stato».

Il riferimento era alla Corte costituzionale, cui spetta il vaglio di costituzionalità. A chiederlo deve essere un giudice ordinario su un caso sottoposto al suo giudizio. Anche nel caso della Riforma Nordio, gli eventuali dubbi di costituzionalità, saranno nel caso risolti per quella via, a tempo debito. 

 
 
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