Michela Murgia è stata una scrittrice, ma soprattutto un’attivista: una donna che in quello che ha scritto, ha detto, ha messo in scena, ha voluto combattere per quello in cui credeva. I diritti delle donne, l’antifascismo, la libertà di essere ciò che si vuole al di là del genere, assumendo posizioni coraggiose ma anche controverse. La sua scomparsa, salutata dal cordoglio unanime del mondo della cultura e della politica, lascia un vuoto, poiché la sua era una voce coraggiosa e coerente, e perché ha vissuto la sua malattia con dignità, senza facile retorica, sorridente e battagliera fino all’ultimo.
Così aveva detto nell’intervista al Corriere della sera in aveva reso pubblico di avere un cancro renale al quarto stadio con metastasi al cervello, alle ossa e ai polmoni che le lasciava pochi mesi di vita: «Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno». E quegli ultimi mesi li ha voluti vivere intensamente, non mancando fino all’ultimo di far sentire la sua voce contro ciò che riteneva ingiusto, come per esempio i respingimenti alla frontiera di Ventimiglia. Anche il suo matrimonio in articulo mortis con Lorenzo Terenzi, attore e regista, era stato un manifesto della sua personale visione della famiglia. Che non parte da una coppia, dimensione per lei espressione del patriarcato, ma è una comunità allargata, ovvero una famiglia queer, quella che aveva formato con altre donne e uomini e di cui facevano parte anche quattro “figli d’anima”, tra cui Raphael, che aveva preso in affido 12 anni fa con un’amica architetto.
Dopo la maturità Michela Murgia aveva studiato teologia, aveva anche insegnato religione ed era stata referente regionale di Azione Cattolica. Col tempo aveva abbandonato una visione "istituzionale" della fede per costruirne una più personalizzata, che aveva raccontato anche in alcuni suoi libri come Ave Mary, riflessione sul ruolo della donna e la Chiesa, e Stai zitta, God save the queer. La sua ricerca sprituale mai venuta meno, aveva insomma battto strade controverse e discutibili.
Così la ricordava alcuni mesi fa il cardinale Gianfranco Ravasi : «Ricordo con affetto il mio dialogo con Michela Murgia a Milano, e il suo incontro a Roma con i ragazzi della mia Consulta. Mi hanno colpito l’intelligenza, l’umanità, la profondità, la coerenza e la fede in Dio, qualità che potranno accompagnarla anche in questo nuovo percorso».
Delle sue opere letterarie due più di tutte hanno lasciato il segno nei lettori: Il mondo deve sapere (2006), frutto della sua esperienza di lavoratrice in un call center da cui Paolo Virzì trasse il film Tutta la vita davanti con Isabella Ragonese, e Accabadora, in cui racconta una figura della tradizione sarda, una sorta di levatrice al contrario, che invece di aiutare a nascere, aiuta a morire, romanzo vincitore dei premi Campiello e super Mondello. Tra le altre sue opere L'ho uccisa perché l'amavo. Falso! (con Loredana Lipperini, 2013); il romanzo Chiru (2015). Ad aprile era uscito Tre ciotole, una sorta di testamento, romanzo fatto di storie che si incastrano e in cui i protagonisti stanno attraversando un cambiamento radicale che costringe ciascuno di loro a forme inedite di sopravvivenza emotiva.
Così disse sempre nell'intervista al Corriere della sera: «Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi».
Domani, 12 agosto, il funerale di Michela Murgia sarà celebrato nella Chiesa degli artisti di Piazza del Popolo a Roma.